C’ERA UNA VOLTA E ORA NON C’E’ PIU’

DI MARIO RIGLI

C’era una volta e ora non c’è più

Appollaiata come un corvo sopra un muro, era assorta la nera mietitrice. Era assorta, stava pensando, stretta nel suo saio nerissimo. Si vedevano solo le sue dita di scheletro spolpate della carne che stringevano forte la falce fienaia. E stava bene e comoda sopra il muro, quasi come a letto, anzi come su un prato di erba che lei stessa aveva fatto crescere fra gli interstizi dei mattoni. Morbido il saio si adagiava sulla superficie del muro, del resto i muri con i fili spinati erano i simboli di questo triste periodo.

Ma si vedeva che stava pensando intensamente, che rimuginava, che stava prendendo una decisione. Alle sue spalle, le balze, sembravano trasfigurate. Inquietanti e spettrali riflettevano i colori di un cielo rosso di sangue, rosso di sangue e nero di pece e sembravano ripiegarsi su loro stesse in una angoscia senza limiti. Una luna strana illuminava quel cielo di incubo.
Si, la vecchia megera, la signora Thanatos aveva preso la sua decisione.
Da quando la luna si era trasformata, tutto fra gli umani era precipitato. La luna aveva cominciato ad avere delle escrescenze strane sulla sua superficie, delle specie di antenne che terminavano con delle piccole spore, rosse, viola, blu, cobalto. Ma era il suo influsso che era mutato, il suo influsso sugli uomini, non, come un tempo, sulle maree. Impediva loro il respiro, annientava i loro polmoni e morivano come mosche per uno spruzzo di insetticida.

No, la megera non poteva accettare una simile concorrenza. Era lei che decideva da millenni chi aveva terminato il suo cammino, era lei che faceva da sempre rotolare le teste, era lei l’arbitro del tempo. Nessuno poteva interferire nel compito che le era stato assegnato fin dall’inizio. Ed ora la luna decideva chi poteva e chi non poteva respirare, molti galoppavano verso Samarcanda senza che la vecchia lo avesse deciso.
Impugnò la falce fienaia come una durlindana e leggera come una giovane fata spiccò il volo verso la luna. Planò sulla superficie e come un vecchio contadino in un campo di frumento e cominciò a dare fendenti. Le protuberanze rotolavano come bilie, una specie di sangue violaceo, colloso e nauseabondo colava da quelle strane ferite. Le escrescenze si disperdevano nello spazio gocciolanti putrescenza. Rasata completamente la superficie, la mietitrice si appollaiò di nuovo sul muro per ammirare l’esito del suo lavoro. Piano piano la luna cambiava colore, riprendeva la sua solita luminescenza. Sulla sua superficie si riformavano i crateri di sempre, assomigliavano come un tempo, come quando eravamo bambini, alla faccia di Caino.

In quel cielo notturno, trapunto di stelle, cominciò a formarsi un arcobaleno. Non si era mai visto un arcobaleno notturno. Chissà da quali rifrangenze strane assorbiva i suoi colori, senza luce ed acqua non si era mai visto un arcobaleno. Eppure ora era apparso nel cielo e la rifrangenza era quella fra le lacrime e la speranza.
Nelle scacchiere deserte ritornarono torri e cavalli, re e regine, alfieri e ballerine.
C’era un volta il Corona, ma ora non c’è più.