Può esistere la società perfetta?

Può esistere la società perfetta

Cominciamo da una delle grandi utopie dei secoli passati: quella di Thomas More. Nella sua celebre opera l’isola di Utopia viene presentata “come il regno della perfetta felicità”. Ma in essa si nota una forte diffidenza verso tutto ciò che è straniero: i suoi abitanti sono infatti isolati. Dal punto di vista economico l’elemento chiave di questa società perfetta delineata da More sta nell’assenza della proprietà privata. Già Platone, nella Repubblica, diceva che la proprietà divide gli uomini mediante la barriera del “mio” e del “tuo”, mentre la comunanza dei beni ripristina l’unità. Là dove non c’è proprietà nulla è “mio” o “tuo”, ma tutto è “nostro”, e a Platone More si ispira proponendo la comunanza dei beni. Inoltre, in Utopia tutti i cittadini sono fra loro uguali. Eliminate le differenze di censo, scompaiono pure quelle di stato sociale. In Utopia, infine, vi sono pochi sacerdoti dediti al culto e un posto speciale è garantito ai “letterati”, ossia a coloro che nascendo con speciali doti e inclinazioni intendono dedicarsi allo studio. In Utopia non c’è posto per il lusso o il superfluo. Elementi molto simili si possono trovare nella Città del Sole di Tommaso Campanella.
Secondo Karl Popper alla tentazione totalitaria è strettamente connessa la tentazione utopica. Per l’utopista, egli afferma, la prima cosa che bisogna fare è la determinazione di un fine ultimo. “Scegliere il fine è la prima cosa che dobbiamo fare se vogliamo agire razionalmente, inoltre dobbiamo porre attenzione a determinare i nostri fini ultimi da quelli intermedi o parziali che, di fatto, sono soltanto mezzi, o fasi lungo la via che porta alla meta finale. Questi principi, se applicati al campo dell’attività politica, richiedono la determinazione dello Stato Ideale, prima che sia intrapresa qualunque azione pratica. Tali sono, dunque, i cardini di quella che Popper chiama “ingegneria sociale utopica”, e alla quale egli contrappone “l’ingegneria sociale gradualistica”. Il politico che adotta l’ingegneria gradualistica “deve avere coscienza del fatto che la perfezione, ammesso che sia raggiungibile, è estremamente lontana e che ogni generazione di esseri umani, e quindi anche la vita, ha le sue esigenze. Forse non tanto l’esigenza di essere resa felice, perché non ci sono mezzi istituzionali atti a rendere un uomo felice, quanto l’esigenza di non essere resa infelice, nei casi in cui l’infelicità può essere evitata”.
Di conseguenza, il gradualista cercherà di adottare il metodo idoneo a individuare i più gravi mali della società invece di cercare il suo bene ultimo. Questa differenza tra l’approccio utopico e quello gradualistico è di estrema importanza. “Si tratta della differenza tra un metodo ragionevole di migliorare la sorte dell’uomo e un metodo che, se realmente tentato, può facilmente portare a un intollerabile accrescimento della sofferenza umana. E’ la differenza fra un metodo che può essere applicato in ogni momento e un metodo la cui adozione può facilmente diventare un alibi per il continuo rinvio dell’azione a una data successiva, quando le condizioni risulteranno più favorevoli. Ed è pure la differenza fra il solo metodo di migliorare le cose che finora ha avuto successo in qualsiasi luogo e un metodo che, dovunque è stato tentato, ha portato soltanto all’uso della violenza invece della ragione”.
In realtà, l’esistenza di mali sociali, cioè di condizioni sociali nelle quali molti uomini soffrono, può essere individuata con relativa facilità. Infinitamente più difficile è ragionare a proposito di una società ideale. I progetti gradualistici sono relativi a situazioni singole, mentre il tentativo utopico di realizzare uno Stato perfetto, usando un modello ideale di società, è tale da richiedere un forte potere centralizzato di pochi e, quindi, da portare verosimilmente all’instaurazione di una dittatura. La critica all’approccio utopico non si ferma qui. Questo approccio, infatti, può avere valore pratico soltanto se partiamo dal presupposto che il modello originario, forse con alcuni aggiustamenti, resti la base del lavoro fino al suo completamento. Ma ciò richiederà del tempo. Sarà un tempo di rivoluzioni, sia politiche che spirituali, e di nuovi esperimenti, di esperienze in campo politico.
Bisogna quindi attendersi che idee e ideali cambieranno. Quello che era apparso come lo Stato Ideale alle persone che elaborarono il modello originario, può non apparire più tale ai successori. Se si ammette questo, allora l’intero approccio utopico finisce in pezzi. Il metodo di stabilire dapprima un fine politico ultimo e poi di cominciare a muoversi verso di esso è futile, se ammettiamo che il fine possa essere considerevolmente modificato durante il processo della sua realizzazione. Può in qualsiasi momento risultare che i passi finora compiuti ci hanno di fatto allontanato dalla realizzazione del nuovo fine.
Non v’è dunque un metodo razionale per determinare il fine ultimo o la società ideale. Il modello di società ideale può mutare nell’arco di un tempo abbastanza breve. E “qualsiasi differenza di opinione tra ingegneri utopici deve quindi portare, in mancanza di metodi razionali, all’uso della forza invece che della ragione, cioè alla violenza”. In realtà, l’utopista mira a riplasmare l’intera società secondo un piano regolatore preciso”, punta a “impadronirsi delle posizioni chiave” e a estendere il potere dello Stato finché stato e società siano diventati identici.
Nonostante le cose stiano così, il pensiero utopico esercita un fascino spesso travolgente. Esso convince e attrae, ed è per la democrazia un pericolo in continuo agguato. Privi di memoria storica, gli utopisti disprezzano le istituzioni democratiche; essi vogliono tutto e subito, e proclamano i loro ideali permeati di passione civile e di superiore moralità. In questa prospettiva, l’utopista appare come il nobile rivoluzionario e il riformista democratico come un gretto reazionario. Se si crede nella democrazia occorre essere vigili e critici nei confronti delle forme di pensiero utopico, e questo perché l’utopista è l’alter ego del totalitario.
Si definiscono “aperte” le società che permettono la prova e l’errore. La società aperta è in realtà l’applicazione dell’epistemologia di Popper nell’ambito sociale, economico, politico: noi non possiamo sapere in modo certo, ma solo supporre. Le nostre supposizioni potrebbero essere sbagliate; l’avanzamento della conoscenza, infatti, consiste proprio nel provare che le supposizioni sono errate. Ciò che importa più di tutto è perciò che la falsificazione rimanga possibile, che non sia impedita da dogmi di alcun tipo. Non possiamo essere certi di quale sia la “buona società”, possiamo solo portare avanti progetti verso questo fine. Tali progetti possono risultare inaccettabili o non appropriati: infatti il significato della vita all’interno della società aperta consiste proprio nel dibattere il pro e il contro. La cosa fondamentale è perciò che il cambiamento, la rimozione di progetti dominanti e di coloro che li abbracciano, rimanga possibile, che non sia prevenuta dalla tirannia o dai diversi gruppi di interesse.
E tuttavia rimane pure un ultimo problema: se prova ed errore caratterizzano la società aperta così come l’avanzamento della conoscenza, cosa succede se le gente smette di provare? Che accade se nessuno si sforza di scoprire il nuovo? Popper avrebbe probabilmente considerato assurda una tale questione. Ma questa assunzione indiscussa che gli uomini siano per natura irriducibilmente attivi, cosicché il problema dell’indolenza neanche si pone, potrebbe dopo tutto essere sbagliata. La questione non riguarda gli elementi essenziali dell’esistenza umana, e neppure della natura umana. Piuttosto, ci sono circostanze nelle quali la gente trova che sia conveniente smettere di provare nuove idee e si attiene a quelle che già esistono limitandosi a convivere con esse? E, se ciò accade, che ne è della società aperta? Cosa succede se non ci sono più scienziati bramosi di scoperte? Cosa accade se gli imprenditori cessano di emergere, e subentra una sorta di rigor mortis economico? Quali le conseguenze se la società civile sprofonda nell’indolenza?
E’ importante notare, allora, che molti popperiani hanno forse troppo insistito sulle valenze negative del concetto di “utopia”, dimenticando che lo stesso Popper ne sottolineava l’indispensabilità come “ideale regolativo”. Non si può vivere senza speranza e senza grandi mete da raggiungere. Abbandonare, dunque, i sogni di perfezione terrena, ma al contempo non rinchiudersi in un presente senza storia. Proprio come il concetto di “solidarietà”, anche quello di utopia ha un valore pratico.

 

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.