La pericolosità della situazione americana

Di Michele Marsonet

Chissà quanto tempo sarà necessario affinché negli Stati Uniti la ragione torni a prevalere. Per ora si vedono soltanto deboli segnali di pacificazione. E’ molto significativo per esempio che il potente leader repubblicano in Senato, Mitch McConnell, finora considerato un “trumpiano di ferro”, abbia invitato il presidente uscente a desistere dalle contestazioni e ad accettare un verdetto elettorale ormai fissato.
E non è il solo. Lo hanno fatto anche Lindsay Graham, lui pure vicino a Trump, e Mitt Romney, quest’ultimo invece su posizioni dissonanti rispetto al presidente. Tra i repubblicani serpeggia la paura che il prolungamento di una situazione così anomala possa danneggiare in modo irrimediabile le sorti del loro partito nelle prossime elezioni presidenziali.
Il discorso, tuttavia, è tutt’altro che semplice. Quando Donald Trump vinse in modo inatteso nel 2016, pur avendo contro il tradizionale establishment repubblicano, s’impadronì in breve tempo del “Grand Old Party” – spesso definito anche “partito di Lincoln” – imprimendovi la propria impronta personale. Con l’eccezione di Romney e pochissimi altri nessuno all’interno del partito osava contestare il presidente, anche perché nei primi anni di mandato aveva pur ottenuto risultati importanti.
Nel frattempo nel Paese cresceva sempre più il fenomeno del “trumpismo”, movimento assai esteso i cui seguaci si definiscono “trumpiani” ancor più che repubblicani. E al suo interno crescevano anche frange estremiste come i “suprematisti bianchi” e i complottisti di “QAnon”. Non si è mai capito fino a che punto Trump concordasse con le loro idee, ma è un fatto che ha sfruttato tali frange per i suoi fini, utilizzandole per esempio come massa di manovra nei suoi comizi.
Né si deve scordare che, sul versante opposto dello scacchiere politico, sono parimenti cresciute frange estremiste legate al movimento “Black Lives Matter” e alle varie espressioni della “cancel culture” che si propone di riscrivere integralmente la storia americana abbattendone i simboli.
Sfruttando la facilità con cui in America si possono comprare armi quasi ovunque, persino nei supermercati, le suddette frange estremiste di destra e di sinistra si sono presto trasformate in milizie paramilitari pronte a usare le armi contro gli avversari politici. Ecco perché viene spesso evocato lo spettro della “guerra civile”, termine che in America non era più stato usato dai tempi della guerra di secessione tra Nord e Sud per porre termine al fenomeno dello schiavismo.
E’ evidente che l’atteggiamento finora tenuto da Donald Trump altro non fa che eccitare ancor più gli animi degli estremisti già sul piede di guerra, e di qui gli appelli di McConnell e altri per giungere a una transizione pacifica tra un presidente e l’altro, peraltro garantita dalla Costituzione e mai venuta meno nel corso della storia americana.
E’ ben noto, tuttavia, che Trump non è uomo facile da convincere, soprattutto se ritiene di aver ragione (come in questo caso). Alcuni evocano quindi scenari terrificanti, tipo impiegare l’esercito per costringere l’attuale presidente e il suo staff a lasciare la Casa Bianca riconoscendo la vittoria di Biden.
L’altro problema è che il successo democratico è stato molto meno impressionante del previsto. Trump ha comunque ottenuto una valanga di voti e li ha addirittura aumentati rispetto al 2016. E, quando una vittoria è risicata, le contestazioni appaiono legittime, soprattutto se il vincitore ha una visione del mondo molto diversa da quello dello sconfitto. Non resta quindi che attendere le prossime mosse del presidente uscente e capire se ascolterà gli appelli alla desistenza che gli provengono dal suo stesso partito.
Non si creda, però, che i democratici vincitori siano in una situazione idilliaca. In realtà anche il loro partito è afflitto da divisioni profonde tra l’ala moderata e centrista di cui Joe Biden è l’espressione, e quella radicale (e a volte barricadiera) che ha appoggiato Biden con la promessa che le sue istanze verranno accolte. Si noti, tra l’altro, che la stessa candidata alla vice-presidenza, Kamala Harris, è su posizioni ben più radicali rispetto al presidente in pectore.
Di certo un simile caos negli Stati Uniti non si era mai visto, neppure ai tempi della guerra del Vietnam e dell’assassinio di John e Robert Kennedy. Ed è proprio questo che induce a parlare di “tragicità” dell’attuale situazione Usa. Joe Biden è un politico di lungo corso, ma avrà bisogno di ricorrere a tutte le sue doti di mediazione per sbrogliare una matassa che diventa sempre più ingarbugliata.

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.