Di Michele Marsonet
A Hong Kong sparisce l’opposizion
Com’era prevedibile, il braccio di ferro tra i cittadini di Hong Kong, in stragrande maggioranza contrari a rapporti troppo stretti con la Cina, e il governo di Pechino si avvia a una triste conclusione. Nonostante le ultime elezioni avessero segnato un grande successo per l’opposizione democratica, Xi Jinping e il suo gruppo dirigente hanno continuato la loro politica di assimilazione, incuranti tanto del voto quanto delle manifestazioni che hanno scosso la città negli ultimi anni.
L’ultimo tassello è stato posto ieri con l’espulsione di quattro deputati del Parlamento locale che rifiutano la suddetta politica di assimilazione. La decisione, affidata alla governatrice filo-cinese Carrie Lam, proviene tuttavia direttamente dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo di Pechino, il quale ha approvato una legge che consente l’espulsione immediata – senza neppure passare dalle aule dei tribunali – dei deputati che mettono in pericolo la sicurezza nazionale.
E, ad avviso del governo cinese, ciò avviene anche per motivi che a noi possono apparire futili, come per esempio il rifiuto di cantare l’inno nazionale della Repubblica Popolare o la partecipazione a dimostrazioni che invocano la libertà di parola e di espressione. In segno di solidarietà con i quattro colleghi espulsi, tutti i deputati eletti nelle liste democratiche sgradite a Pechino si sono dimessi dal Parlamento.
Il risultato è che, ora, l’opposizione in Parlamento è totalmente sparita. Segno evidente che la succitata assimilazione è ormai un fatto compiuto. Proprio come accade nella Repubblica Popolare, adesso a Hong Kong esiste un solo partito – quello comunista – le cui direttive non possono essere contestate in piazza né in Parlamento. Il Partito, che in Cina è tutt’uno con lo Stato, resta unico e solitario, al potere addirittura dal 1949 quando Mao Zedong proclamò ufficialmente la nascita della Repubblica Popolare.
Si rammenterà che quando nel 1997 il Regno Unito restituì Hong Kong alla Cina, venne firmato un accordo promosso da Deng Xiaoping il cui fulcro era lo slogan “un Paese, due sistemi”. Ciò garantiva alla ex colonia britannica il mantenimento delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto (che nella Repubblica Polare non esiste). Il patto è stato mantenuto per parecchi anni, ma con l’avvento al potere di Xi Jinping, si è subito visto che i cinesi intendevano percorrere una strada ben diversa.
La città-isola è quindi diventata sede di scontri pressoché quotidiani tra grandi folle di cittadini e la polizia che ha represso anche con la violenza le continue dimostrazioni. A nulla sono valse le pressioni internazionali, soprattutto da parte dei Paesi occidentali, volte a convincere la Cina a mantenere il patto siglato nel 1997. Pechino ha adottato la politica dello schiacciasassi senza lasciare il benché minimo spiraglio alle locali aspirazioni di autonomia.
E non è un caso che la decisione di eliminare totalmente l’opposizione dal Parlamento locale sia giunta proprio ora, con l’America avviluppata in una crisi istituzionale senza precedenti dopo le ultime elezioni presidenziali Usa. Del resto l’Occidente può fare ben poco, visto che la città è collocata entro i confini cinesi.
Ci si chiede adesso se la Repubblica Popolare si accontenterà del risultato conseguito a Hong Kong oppure se, approfittando della debolezza di Usa e Ue, si spingerà ancora più avanti rispolverando il vecchio progetto di annettere anche Taiwan. Operazione, questa, molto più rischiosa, giacché Taipei è garantita da un trattato di assistenza militare con gli Stati Uniti.
Tuttavia la Cina, diventata ormai potenza globale, ha dimostrato negli ultimi decenni di avere una politica estera molto assertiva, come del resto si evince dalla sua espansione militare nelle acque del Mar Cinese Meridionale. L’incertezza è inoltre acuita dal fatto che non si comprende ancora quale sarà la strategia americana nei confronti della Repubblica Popolare nel futuro immediato.
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