VAJONT. 9 OTTOBRE 1963: NON DOBBIAMO DIMENTICARE. MAI

Di Ivana Fabris

Avevo 2 anni e mezzo, quella notte. Probabilmente alle 22.39 di quel 9 ottobre del 1963, io e la mia famiglia già dormivamo, al sicuro nei nostri letti.
Per me nulla sarebbe cambiato, il mattino dopo, ma per i miei genitori molte cose sarebbero state profondamente diverse.
Mio padre, mia madre e mia sorella, al loro risveglio, avrebbero avuto la certezza che lassù, sulle montagne della loro terra, una ferita si era aperta e aveva spazzato via interi paesi. E migliaia di vite.
Non vissi in prima persona quei momenti ma sono cresciuta di e con quei momenti, di un lutto intimo che se anche non veniva esplicitato, c’era, lo si percepiva, lo si coglieva nell’aria in più e più occasioni.
La mia era una famiglia di emigranti con il richiamo della propria terra nel sangue. Una famiglia migrata a Milano perchè il Friuli era una regione povera, senza futuro, dicevano, ma ogni friulano che ha dovuto andarsene per il mondo, di quella terra ha sempre portato, inscritto in sé, un richiamo che mai ha conosciuto confini.
Per noi friulani, ogni zolla di terra e ogni singola pietra che costituiscono il territorio, hanno una loro precisa funzione, una loro precisa energia, una sorta di identità e tutto ciò che appartiene all’ambiente, ha vita propria, possiede un’energia ancestrale, qualcosa che non puoi piegare ma che devi accogliere e rispettare.
Non è la terra a dover accettare le regole dell’uomo ma esattamente il contrario.
Saggezza contadina? No, forse solo gratitudine nei confronti della terra che sfama, della Madre che nutre i suoi figli.
Ogni contadino friulano sa che se posi una pietra o, peggio, se la sposti, quella darà origine al ‘tutto’.
Di pietre, negli anni in cui costruirono la diga, se ne posarono fin troppe: fino a 261,60 metri di altezza.
Di pietre, quella notte del 9 ottobre 1963, se ne spostarono in quantità spaventosa: 270 milioni di metri cubi.
La brutalità – e l’inopportunità – con cui quei monti e quelle terre furono violate, si ritorse contro l’uomo stesso ma non contro coloro i quali avevano attuato quella nefandezza, bensì, come sempre ed anche oggi accade, contro una popolazione inerme, contro povera gente che, ignara, dormiva nei propri letti o semplicemente stava nelle osterie di paesi come Erto, Casso e Longarone.
Non riesco nemmeno ad immaginare quale dolore e quale rabbia, in quei giorni subito seguenti al 9 ottobre, mio padre visse all’idea di ciò che era accaduto, di quanto orrore abbia provato all’idea di una simile sciagura.
Una sciagura che non era frutto della casualità, non un cataclisma prodotto dalla forza della natura, ma un’immane catastrofe interamente voluta dalla scelleratezza di alcuni esseri umani in nome del profitto.
Di quel che provava quel contadino friulano che mio padre era rimasto, malgrado vivesse e lavorasse a Milano, ho invece chiaro il dolore commisto alla rabbia. Il suo volto è stampato nella mia mente, un volto che si faceva come una maschera di pietra, sul ciglio della diga.
I miei ricordi risalgono, infatti, a pochi anni dopo di fronte a quell’immensa massa che riempiva ciò che poco tempo prima era stato l’invaso.
Rammento con angoscia quell’enorme spazio di fronte a me: la roccia, il bosco, i pascoli si sostituirono all’acqua. Roccia, terra e detriti su cui la natura cominciava a tentare di sanare la sua profonda ferita.
E con altrettanta angoscia ricordo quell’espressione di mio padre, il suo silenzio, il suo sguardo verso quell’immenso stravaso di montagna poco più sotto dei suoi piedi.
Posso immaginare quali fossero i suoi pensieri, tutto il dolore per una così grande ferita inferta alla terra e agli uomini che l’abitavano e rispettavano.
Fa impressione con quale forza e violenza la natura si sia ribellata ad un atto così sconsiderato e brutale come costruire un’opera di quelle proporzioni ai piedi di un Monte che i nostri vecchi avevano ribattezzato proprio Toc.
Ma fa ancora più impressione come non furono mai ascoltate le parole di chi sapeva e ne denunciava il pericolo.
Con l’età acquisii consapevolezza di ciò che avvenne, di come fecero in modo che avvenisse, e la rabbia e il dolore di mio padre, divennero i miei.
La rabbia e il dolore di quegli istanti Marco Paolini li espresse come meglio non si sarebbe potuto. Soprattutto descrisse quelle vite spezzate in modo così vivido che ogni italiano che abbia ascoltato il suo monologo non può non aver provato per le sorti di quelle genti spazzate via dalla folle avidità di un pugno di uomini.
Negli anni della maturità, sono tornata spesso sulla diga con le mie figlie ed ho constatato che la sapiente mano della natura continua, paziente, a guarire la sua ferita facendo nascere, su quell’immane massa di roccia, quasi a voler ammantare di dolcezza e tenerezza tutto quel dolore, un nuovo bosco.
Ma io no, io non voglio acquietare il dolore proprio per non dimenticare questo inutile massacro, quindi, man mano ci torno, continuo a ripercorrere i momenti del disastro.
Ogni volta che sono stata alla diga del Vajont, ho continuato ad immaginare quell’immensa massa d’acqua salire lungo il costone prospicente quello della frana e infliggere uno schiaffo brutale, quasi cancellandoli, ad Erto e Casso per poi ricadere con una violenza inusitata sull’invaso stesso.
Da lì in poi è l’orrore. La mente vede l’acqua effettuare un salto a dir poco gigantesco e, repentinamente, andare oltre quella barriera di cemento armato. In quell’oltre, lo sguardo scopre quella gola così stretta e lunga. Quello è il momento in cui il sangue si gela nelle vene.
La diga che si erge ancora magnifica e intatta, come un’opera monumentale, un’impresa titanica di grande talento ingegneristico, è simbolo di un orrore che va oltre il tempo e lo spazio e, in pochi secondi, diviene quel mostro per cui tutto è accaduto: la mente immagina l’acqua che scavalca la diga, si incanala in quello spazio angusto di roccia, lo riempie tutto, ne viene compressa e assume una velocità spaventosa, una forza incontenibile e laggiù, più in fondo alla gola, si intravede la pianura. E Longarone. Longarone è là sotto.
Solo a pensarlo, ogni volta, solo a scriverlo, le lacrime riempiono gli occhi all’idea di quella povera gente ignara.
Il pensiero corre sempre a quel paesino semiaddormentato in una fredda notte ottobrina, una di quelle notti come tante ne ricordo in Friuli, nella mia memoria di bambina, con quelle abitudini tipiche del costume di piccoli centri agricoli delle nostre zone.
Freddo, le stufe accese, dai camini escono sottili pennacchi di fumo, odori nell’aria di legna che arde nelle case, di foschia e umidità, l’odore tipico dei paesi della fascia pedemontana, di un freddo che avvolge e che ghiaccia le ossa ma pregno di un’atmosfera particolare.
Quiete e suoni rasserenanti, il sonno che lentamente avvolge tutto.
Solo nelle osterie si percepiscono voci, rumori di stoviglie, risa e l’odore di fumo delle stufe frammisto a quello del toscano che penzola dalle labbra dei nonni o delle sigarette insieme a quello del vino e del caffè.
Su tutta questa calma rassicurante, all’improvviso un boato, all’improvviso un vento che polverizza qualunque corpo trovi sul suo cammino, all’improvviso un’onda anomala.
Un oceano di acqua mossa da un impeto inimmaginabile. Sono 25 milioni i metri cubi d’acqua che, in pochissimi minuti, spezzano migliaia di vite umane.
Poi, un altro oceano investe quelle vite: il fango. E, insieme, i tronchi, i rami e i legnami, i massi, le macerie, i calcinacci e detriti di ogni genere.
E freddo, un freddo gelido accompagnato da un silenzio surreale che dura qualche istante, subito seguito dalle urla di chi è sopravvissuto, dal pianto dei bambini.
Non voglio, non riesco nemmeno a soffermarmi sul pensiero di quello che l’alba avrà mostrato.
Non ce la faccio ad immaginare ciò che i soccorritori avranno avuto dinnanzi agli occhi, a ciò che il Piave ha mostrato per giorni, a tutti quei poveri corpi straziati e tutta la disperazione di chi, fra i sopravvissuti, scavava alla ricerca di un corpo caro o delle poche masserizie che rimanevano.
Ma una cosa so e una cosa voglio, da friulana ma anche da italiana: voglio che la memoria di questo eccidio non si perda nel tempo. Continuerò a tramandarla come già faccio, continuerò a parlarne, continuerò a denunciare questa, come una strage di Stato.
Lo devo alla mia gente, lo devo ai morti di Longarone, lo devo alle generazioni future del mio Paese.

 


Friulana d’origine ma milanese per nascita e formazione. Quando la città è diventata la Milano da bere e successivamente spersonalizzante e alienante, fuga nei pressi delle colline del Garda bresciano dove risiede da circa vent’anni.
Politica attiva, questioni sociali e tutto ciò che soddisfa la sua voglia di conoscenza dell’essere umano, le passioni fin dall’adolescenza, supportate da studio continuo, informazione e controinformazione.
Per lavoro, più di due decenni in Sanità pubblica. Poi cambio totale di orizzonte, verso
paesaggismo e giardini, una passione diventata prima studio poi la professione svolta fino a pochi anni fa.
Lettrice instancabile, cinefila sfrenata, appassionata di musica – soprattutto classica ma non disdegna altri generi – viaggiatrice curiosa di scoprire non solo paesaggi, arte e architetture ma anche diverse forme di società e culture, innamorata della fotografia, dell’arte e della comunicazione verbale e non.
59 anni, 2 figlie, 6 gatti, tutta la sua famiglia. Tutta ma non del tutto, perché la famiglia è un luogo sempre aperto ad amici e affetti.