Stato “etico” in Cina?

Di Michele Marsonet

Non desta sorpresa il fatto che si cominci a parlare di un progetto di ripristinare lo “Stato etico” in Cina. Rammento che, con tale espressione, si intende la forma istituzionale, caldeggiata da filosofi come Hobbes e – soprattutto – Hegel, nella quale l’istituzione statale rappresenta il fine ultimo cui devono tendere tutte le azioni dei singoli individui, portando così all’attualizzazione del bene universale.

Gli indizi che conducono in tale direzione sono più d’uno. Per esempio i governanti di Pechino si sono accorti che l’obbligo del figlio unico sta conducendo il Paese a un decremento demografico superiore alle attese. Mentre in precedenza la campagna che imponeva tale obbligo intendeva porre un limite drastico alla sovrappopolazione, ora si è capito che essa ha prodotto l’effetto contrario.

Il rischio, ben noto in Italia e in altri Paesi occidentali, è che nei prossimi anni gli anziani prevalgano largamente sui giovani, così causando il collasso del sistema previdenziale e pensionistico. In ambito cinese, tuttavia, non ci si è persi in chiacchiere. Il partito ha invitato i giovani a sposarsi e le coppie a generare più figli. Finora la reazione della popolazione è tutt’altro che entusiasta, e resta da capire se obbedirà davvero all’ordine calato dall’alto.

Altro indizio importante è il giro di vite imposto alle attività religiose. Xi Jinping e l’intero gruppo dirigente hanno chiarito che tutte le confessioni religiose devono subito adeguarsi agli obiettivi della società socialista. Si parla apertamente di “sinizzazione della religione”, di modo che quest’ultima non ostacoli gli obiettivi di cui sopra.

Naturalmente tale direttiva è problematica, soprattutto per quanto riguarda le numerose comunità islamiche. A preoccupare non sono soltanto i soliti Uiguri dello Xinjiang, che da sempre resistono ai tentativi di sinizzazione della loro area. Di recente si sono mossi anche gli Hui, una comunità musulmana moderata che non aveva mai causato problemi.

Terzo indizio è il tentativo sempre più massiccio di controllare in modo capillare stampa e mass media ponendo barriere ai contatti con l’estero. Ed è entrato nel mirino delle autorità pure il settore dei videogiochi, che in Cina come altrove rappresenta un business enorme. La motivazione è che i videogiochi corrompono la gioventù, allontanandola dai già citati obiettivi della società socialista.

Tutto ciò può sembrare naturale ove si rammenti che, nella Repubblica Popolare, il marxismo-leninismo, con l’aggiunta del pensiero di Mao Zedong, è tuttora l’ideologia ufficiale e unica. Tale fatto però non basta a spiegare le mosse più recenti del partito comunista. Occorre infatti ricorrere alla riabilitazione, in atto ormai da tempo, del confucianesimo che venne in pratica bandito nell’era maoista.

Confucio insegnava che il primo ambito sociale in cui gli esseri umani apprendono l’autenticità è la famiglia, nella quale il rispetto dei genitori è essenziale. Il secondo ambito è la società civile, nella quale si apprendono e si applicano la giustizia e l’altruismo. Ma più importante di tutti è il terzo livello, quello dello Stato. In quel contesto i cittadini sono tenuti alla lealtà e alla fedeltà: al sovrano ai tempi di Confucio, al partito ora.

Ovviamente il sovrano o il partito deve governare con saggezza astenendosi dalla corruzione. In sostanza lo Stato è una sorta di “grande famiglia”, nella quale i cittadini rispettano i diritti e i doveri della loro condizione sociale attenendosi a un codice fisso e prestabilito che regola i rapporti tra centro e periferia.

Il problema è che il sovrano-imperatore era in possesso di un “mandato ricevuto dal cielo”, il quale l’autorizzava a governare. Nella Cina di oggi il mandato del partito comunista non può essere celeste e, a ben guardare, si basa ancora sulla Lunga Marcia e sulla vittoria ottenuta nel 1949 contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek.

Se a tutto questo aggiungiamo che, almeno finora, milioni di giovani cinesi si sono recati ogni anno a studiare in università occidentali, venendo così in contatto diretto con libertà di stampa e di credenze religiose, è lecito prevedere che per il gruppo dirigente capeggiato da Xi Jinping sarà sempre più arduo mantenere sotto controllo la situazione.

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.