La visione cosmologica di Teilhard de Chardin

Di Michele Marsonet

Nonostante le opinioni contrarie, si può con buone ragioni parlare di una costante attualità del pensiero di Pierre Teilhard de Chardin. Le tesi teilhardiane, infatti, anticipano spesso temi che sono diventati popolari e dibattuti dopo la sua morte (10 aprile 1955), il che spiega almeno parzialmente perché “il gesuita proibito” sia stato così contestato quando era in vita: i suoi contemporanei non avevano in mano tutti gli elementi per comprenderlo sino in fondo.
Vorrei inoltre richiamare due fatti. Si è talora detto che Teilhard non ha una vera visione filosofica, nel senso che le sue idee sarebbero troppo confuse. Rispondo allora che molti – e in particolare i non specialisti – sono tuttora prigionieri della visione del mondo positivista che è oggi in crisi. In secondo luogo, si è anche detto che il linguaggio teilhardiano non è abbastanza preciso: a volte, leggendo le sue opere, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un poeta più che a uno scienziato. Occorre però rammentare che la precisione del linguaggio è certamente auspicabile, ma non è una condizione così vincolante come alcune correnti di pensiero contemporanee vorrebbero far credere. Non è difficile imbattersi in filosofi che usavano un linguaggio preciso e nitidissimo, ma che non paiono più “vivi” ai giorni nostri mentre, d’altro canto, vi sono pensatori che continuano a parlarci anche se il loro linguaggio non rispetta dei criteri di precisione logica.
Spesso nella storia della scienza vengono aperte strade che poi paiono abbandonate senza lasciare traccia. Talora esse riemergono all’improvviso, e questo è il caso di un’idea sviluppata nel XVIII secolo: quella di considerare la Terra come un’unica entità globale. Nel ’700, infatti, con la diffusione delle teorie newtoniane in fisica, si diffuse parallelamente una filosofia in cui Dio veniva relegato al ruolo di spettatore dell’universo. In altre parole le leggi newtoniane erano tali che la macchina cosmica, una volta avviata, era in grado di regolarsi da sola, e Dio veniva dunque concepito alla stregua di un grande “orologiaio”.
E’ utile notare a questo punto che, nell’ambiente culturale italiano dell’800, troviamo uno scienziato che cerca di recuperare la stretta correlazione – e reciproca influenza – tra geologia e vita. Si tratta dell’abate Antonio Stoppani, uno dei maggiori geologi del XIX secolo. Stoppani sosteneva una visione finalistica della natura, la quale aveva a suo avviso come scopo la preservazione di un ambiente pronto per accogliere l’uomo. Si pone però un problema decisivo che bisogna affrontare per rendere coerente una simile affermazione. Visto che l’età geologica della Terra si misura in milioni di anni, e che la storia geologica del nostro pianeta è caratterizzata da cambiamenti di enorme portata, occorre chiedersi: com’è possibile che le condizioni ambientali si siano mantenute costanti, così da rendere la Terra adatta per la vita?
La risposta di Stoppani è interessante perché anticipa temi caratteristici del pensiero di Teilhard de Chardin. Sappiamo che i fiumi portano al mare quantità enormi di calcare e di sali ogni secondo. Eppure, nonostante i tempi geologici siano, per l’appunto, valutabili in milioni di anni, la concentrazione di calcare e la salinità delle acque marine si mantiene costante proprio ai livelli che consentono il sorgere della vita. Ecco dunque Stoppani proporre e difendere la tesi di un “ciclo costante per cui i continenti, che di continuo si struggono, di continuo siano rifatti; per cui il mare, che di continuo si inquina, continuamente si depuri; sicché non cessino le condizioni della vita per quelle miriadi di animali, per cui è morte un sol grado di salsedine di più o di meno; sicché insomma trionfi la vita in mezzo alla continua lotta che minaccia la morte”. La vita diventa la forza che garantisce il mantenimento della stabilità.
Riemerge dunque, a cavallo tra ’800 e ’900, l’idea che per comprendere il funzionamento di un oggetto composto da più parti non è sufficiente conoscere tipo e quantità, ma anche le modalità delle loro “interazioni”. In altre parole: il funzionamento del tutto non può essere ricondotto alla semplice somma delle parti. L’idea della biosfera che si comporta come un’unica entità viene successivamente discussa nella Francia degli anni ’20 da un geochimico russo invitato alla Sorbona per tenere un ciclo di lezioni: Vladimir Vernadsky. Egli sottolinea l’influsso degli esseri viventi sullo sviluppo dei parametri chimici e fisici della Terra. Discute inoltre queste sue tesi con due colleghi francesi, il filosofo Eduard Le Roy e il gesuita paleontologo Pierre Teilhard de Chardin. Dalle loro discussioni nasce l’idea, ampiamente sviluppata in seguito proprio da Teilhard, di aggiungere un’ulteriore sfera: quella pensante, o “noosfera”.
Teilhard era un paleontologo e vedeva con chiarezza i legami tra la biosfera e l’evoluzione, ed è importante sottolineare come il periodo più fecondo della sua attività e culturale si svolga durante il suo lungo soggiorno cinese (dagli anni ’20 agli anni ’40 del secolo scorso). E’ ovvio che la sua idea di considerare l’universo come una totalità che si evolve e si autotrasforma trova un preciso riferimento nella sua attività scientifica. Assieme al confratello gesuita e zoologo padre Pierre Leroy, Teilhard fondò a Pechino l’Istituto di Geobiologia, una nuova scienza il cui scopo è studiare la biosfera come un tutto complesso che si evolve. E proprio qui si colloca la grande novità che Teilhard porta allo studio dell’evoluzione: rivisti oggi, alla luce degli elementi che si sono accumulati negli ultimi decenni, nei suoi contributi si scorge un’apertura rivoluzionaria.
Dunque Teilhard, lavorando con l’ipotesi della biosfera, ha parlato di fattori di canalizzazione e di direzionalità dell’evoluzione. Inoltre, anticipando temi che solo oggi – dopo la messa a fuoco dei sistemi complessi – stanno ricevendo sufficiente attenzione, egli ha introdotto l’idea che nell’evoluzione possano esservi emergenza di proprietà e fenomeni-soglia, il principale dei quali è la nascita della “noosfera”, cioè della sfera pensante. E questo effetto-soglia è proprio quello legato alla nascita dell’umanità.
Ora, uno dei punti più importanti dell’indagine sui fenomeni complessi è l’idea che non tutte le direzioni di sviluppo siano possibili, ma che esistano “canalizzazioni” legate a vari fattori. Mentre per l’evoluzionista classico tutti gli esiti dell’evoluzione sono possibili, e ciò che noi vediamo realizzato è il risultato del gioco “casuale” di variazione e selezione, secondo altre visioni vi sono solo alcune forme “possibili” che poi l’evoluzione tende a realizzare. Esistono dunque degli attrattori delle forme che in qualche modo indirizzano gli sviluppi evolutivi, e la selezione serve solo a determinare gli aggiustamenti locali. Ciò significa, tra l’altro, che l’opera di Teilhard è attuale perché si inserisce in uno dei dibattiti più interessanti della scienza e della filosofia della scienza contemporanee: quello tra coloro che pongono il “caso” alla base dell’evoluzione e coloro che, invece, individuano elementi di direzionalità nei processi evolutivi.
Mette dunque conto notare che Teilhard anticipa di decenni temi e problematiche che, oggi, sono diventati oggetto corrente di discussione. Naturalmente egli sostiene la direzionalità dell’evoluzione, e i motivi della sua scelta dovrebbero essere evidenti non appena si rammenti il significato “anche” teologico che egli attribuiva alla sua opera. Come sempre accade per le ipotesi filosofiche che nascono dal lavoro degli scienziati, non possiamo stabilire in modo definitivo chi ha ragione e chi torto. Tutti coloro che negano la direzionalità dell’evoluzione saranno portati a giudicare in gran parte infondate le conclusioni teilhardiane. Viceversa, chi ritiene improponibile il “caso” come spiegazione dei processi evolutivi giudicherà l’opera del gesuita francese con ben maggiore simpatia. A questo proposito, anche pensatori orientati scientificamente come Karl Popper e Konrad Lorenz riconoscono che l’evoluzione “va verso l’alto”; essi affermano, infatti, che “quel ‘quid’ che determina lo sviluppo superiore, e che è alla base del creativo, noi non lo conosciamo”. Naturalmente, il “quid” è visto da Popper e Lorenz in termini non teilhardiani: invece che a Dio, essi preferiscono ricorrere a una sorta di “daimon” socratico.
Inoltre l’opera teilhardiana si inserisce a pieno titolo nelle discussioni contemporanee sul “principio antropico”. Esso fu introdotto nella cosmologia partendo dalla constatazione che, se il valore di alcune costanti fisiche fosse stato anche solo impercettibilmente diverso, la storia dell’universo avrebbe avuto un altro corso. Vita e intelligenza sorgono perché si sono verificati congiuntamente alcuni valori: senza di essi, la vita – e, di conseguenza, gli esseri umani – non sarebbero apparsi. Ovviamente i pareri circa la validità di questo principio divergono. Secondo alcuni esso introduce nella scienza il concetto di “finalità” naturale (che sarebbe metafisico e non scientifico). Ma si noti che si introduce una prospettiva metafisica anche sostenendo che il verificarsi simultaneo dei valori anzidetti è dovuto al caso.
Teilhard, dunque, affronta in modo originale un interrogativo assai antico: perché l’intelligenza è sorta a partire da una cornice naturale? La sua risposta ha, per l’appunto, carattere finalistico: c’è, nella natura, la tendenza a produrre esseri dotati di crescente complessità.
Sono molti i grandi scienziati che hanno ritenuto opportuno correlare i dati sperimentali a riflessioni filosofico-metafisiche. Tra gli evoluzionisti si possono citare Huxley e Dobzhansky, tra i fisici di prima grandezza Einstein, Heisenberg e Bohr. Teilhard è in buona compagnia. Se è vero che trarre conseguenze metafisiche dalle indagini scientifiche costituisce un “peccato”, allora tale peccato è stato commesso anche da buona parte di coloro che hanno fatto la storia della scienza contemporanea. In conclusione, credo che dalle precedenti considerazioni si possa desumere tanto l’originalità quanto l’attualità dell’opera del “gesuita proibito”. E in ogni caso Teihard merita di essere letto e studiato con attenzione.

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.