Biden e il ritorno a Obama

Di Michele Marsonet

Mentre si sta faticosamente avviando la transizione tra l’amministrazione di Trump e quella di Biden, appare sempre più chiara l’intenzione del presidente eletto di collocarsi in toto sulla scia di Barack Obama. Del resto è noto che tra i due esiste non solo consonanza politica, ma anche una profonda stima personale.
E’ sufficiente scorrere i nomi dei futuri ministri per capire che Joe Biden vuole cambiare in modo radicale le linee di politica interna ed estera adottate dal predecessore. Ecco quindi il ritorno al multilateralismo, con una maggiore attenzione per gli alleati tradizionali singolarmente presi, e anche per l’Unione Europea, che Donald Trump osteggiava apertamente. Ciò vale pure per le istituzioni sovranazionali come Onu e Oms, di cui il “tycoon” newyorkese non riconosceva il ruolo.
E’ noto che Obama si è speso molto per favorire l’elezione del suo ex vice. Sarebbe tuttavia errato porre la questione in termini di pura riconoscenza personale. In realtà Joe Biden era perfettamente integrato nell’amministrazione Obama e ne ha condiviso sino in fondo strategia e ispirazione.
La nomina di Anthony Blinken come Segretario di Stato costituisce un completo cambio di rotta rispetto alla gestione di Mike Pompeo. Blinken ha già lavorato sia con Obama che con lo stesso Biden, ed è un accesso fautore del multilateralismo che si adoprerà molto per ricucire tradizionali alleanze ora un po’ traballanti.
Altro nome di rilievo è quello di Janet Yellen, per molti anni presidente della Federal Reserve, indicata come futuro ministro del Tesoro. Sarebbe la prima donna ad occupare questa posizione chiave, a riprova del fatto che la componente femminile è destinata a giocare un ruolo di rilievo nella nuova amministrazione. Fatto del resto confermato dalla probabile nomina dell’afroamericana Linda Thomas-Greenfield come ambasciatrice Usa all’Onu. E’, tra l’altro, una grande esperta di affari africani.
Significativi pure il ritorno di John Kerry, già Segretario di Stato con Obama, destinato a ricoprire il ruolo di inviato speciale per il clima, e la nomina di Avril Haines, già vice-direttrice della Cia con Obama e ora designata nuovo direttore dell’agenzia di Intelligence statunitense. Anche in questo caso si tratta della prima donna a ricoprire tale incarico. Senza scordare, ovviamente, Kamala Harris, primo vice-presidente donna della storia americana.
E’ importante notare che Biden non ha fatto – almeno per ora – concessioni alla sinistra interna del partito, né a quella che si riconosce in Bernie Sanders, né a quella rappresentata in primis da Alexandria Ocasio-Cortez. Ha invece privilegiato esponenti dell’ala centrista e moderata di cui egli stesso è il leader.
E questo, in futuro, potrebbe essere un problema considerata la forza che la sinistra detiene nel Partito Democratico. La Ocasio-Cortez ha già dato segni d’insoddisfazione, e i seguaci di Sanders non sono ovviamente felici delle scelte compiute dal neopresidente. Anche perché la sinistra si era decisa, dopo molte incertezze, ad appoggiare Biden solo dopo aver ricevuto l’assicurazione che le sue istanze all’interno dell’amministrazione sarebbero state rappresentate ai massimi livelli.
Tra i problemi più spinosi che il neopresidente dovrà affrontare c’è quello dei rapporti con la Cina. Trump aveva scelto di adottare un approccio “muscolare” nei confronti di Pechino basato soprattutto sulla politica dei dazi. E’ probabile che Biden preferisca invece una strategia più morbida insistendo sul tema dei “diritti umani”, già privilegiato da Obama e da Hillary Clinton.
Si troverà, tra l’altro, di fronte al grande accordo di libero scambio che la Cina ha appena siglato con 14 Paesi del Pacifico, inclusi tradizionali alleati Usa quali Australia, Nuova Zelanda e Thailandia. Accordo che esclude gli Stati Uniti da un’area strategica per gli interessi americani. Senza contare il problema di Taiwan, sotto la protezione dello scudo Usa, ma minacciata direttamente dall’espansionismo cinese.
Restano sullo sfondo le difficoltà del Partito Repubblicano che, con Trump, ha in pratica cambiato pelle. Si tratta ora di capire se l’establishment del partito continuerà sulla strada del populismo trumpiano, oppure deciderà di tornare al tradizionale conservatorismo che lo ha sempre caratterizzato.

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.