Un’America spaccata a metà

Di Michele Marsonet

Molti erano sorpresi nel sentir usare l’espressione “guerra civile” in riferimento alle elezioni presidenziali Usa. Per chi conosce la storia americana, si definisce “guerra civile” quella che un tempo veniva chiamata “guerra di secessione”, il grande conflitto che nell’800 contrappose Nord e Sud sulla questione dello schiavismo.
Lo spettacolo davvero indecente offerto da queste elezioni fa capire che non si tratta di un’esagerazione, anche se è auspicabile che la guerra civile resti solo sulla carta.
E’ chiaro però che siamo di fronte a una nazione profondamente divisa e attraversata da una drammatica crisi di identità. In sostanza, è come se ci fossero due Americhe in contrasto pressoché insanabile tra loro. Non riescono più a trovare una base comune per comunicare in modo corretto, a prescindere dalle inevitabili divisioni politiche e ideologiche.
Oggi, negli Stati Uniti sta accadendo proprio questo, e la ragione di fondo sta nella radicalizzazione estrema dello scenario politico. Non ci sono più i due partiti di un tempo che, pur diversi, condividevano una visione di fondo della società e della storia americane, e che si combattevano, ma senza negare all’avversario la dignità.
L’avversario è invece diventato un “nemico” a tutto tondo, che dev’essere non solo sconfitto, ma anche annientato perché la sua visione del mondo è del tutto incompatibile con quella della parte avversa.
Ancor prima che il processo elettorale terminasse, già si mettevano le mani avanti sostenendo che l’eventuale vittoria dell’avversario/nemico sarebbe stata illegittima non riflettendo la volontà del popolo (o della nazione).
Se n’è accorto pure Joe Biden il quale, nel suo discorso di semi-investitura, ha detto con chiarezza che “dobbiamo smettere di vederci come nemici”. Si ha tuttavia l’impressione che tale appello alla moderazione non sia per nulla condiviso da gran parte del partito democratico, e in particolare dalla sua potente sinistra radicale. Quest’ultima ha continuato a sostenere che un eventuale secondo mandato di Trump sarebbe stato una sventura epocale, contro cui combattere con ogni mezzo (incluso il ricorso alla piazza).
Né si deve scordare, d’altro canto, che quando il tycoon di New York prevalse inaspettatamente su Hillary Clinton nel 2016, buona parte dell’elettorato a lui contrario scese in strada gridando che quello non era il “loro presidente”.
Da parte sua Trump, figura quanto mai divisiva, nulla ha fatto per colmare il gap che allora si manifestò in modo così evidente, preferendo quasi sempre soffiare sul fuoco della divisione piuttosto che adoperarsi per spegnerlo.
La narrazione fornita dalla stampa mainstream ci dice che tutta la colpa va fatta ricadere sulle spalle del presidente uscente. Tuttavia gli eccessi del politically correct, la cancel culture, la distruzione di statue e monumenti e il tentativo di riscrivere integralmente la storia Usa hanno scavato un solco sempre più profondo tra le due anime tra loro incompatibili che ora compongono gli Stati Uniti. Senza dimenticare l’incredibile clima di intolleranza che si è diffuso nelle università, dove non si concede la parola a chi ha opinioni diverse.
Tutto ciò negli Stati Uniti non era mai accaduto, nemmeno nei molti casi di vittorie risicate come quella di George W. Bush contro Al Gore nel 2000. E di “guerra civile” non si era parlato neppure in occasione dell’assassinio dei due Kennedy.
La forza delle democrazia americana è sempre stata garantita dal riconoscimento dei risultati elettorali da parte di entrambi gli avversari, fatto salvo un ulteriore – e legittimo – conteggio dei voti come accadde per l’appunto in Florida nel 2000.
Una delle conseguenze più spiacevoli della crisi americana è che i regimi autoritari ne approfittano a piene mani per screditare la democrazia liberale tacciandola di inefficienza. Lo sta facendo la Cina, dove sui giornali di partito e nei social network abbondano le ironie sulle elezioni Usa.
E’ davvero curioso questo fatto. Un Paese in cui c’è un unico partito – quello comunista – che governa senza soluzione di continuità addirittura dal 1949, senza mai concedere all’elettorato di esprimere in libertà la sua opinione, si permette di ridicolizzare la liberaldemocrazia occidentale proponendo il suo regime autoritario come modello da imitare.
Il problema è che negli Usa il meccanismo – così prezioso – del riconoscimento e del rispetto reciproco sembra essersi rotto. Resta ora da vedere cosa accadrà nelle prossime settimane, poiché è ovvio che queste elezioni ci restituiscono un’America assai diversa da quella che eravamo abituati a conoscere.

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.