Tra Usa e Cina la guerra digitale non finisce

Di Michele Marsonet

 

Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese stanno diventando sempre meno comunicanti dopo che, negli ultimi due decenni, si era invece verificato un processo di integrazione tra le economie e i circuiti digitali delle due superpotenze.

A Donald Trump non è bastata la guerra contro i colossi informatici cinesi Huawei e Zte, contro i quali era riuscito a mobilitare anche i principali alleati occidentali sulla delicata questione della tecnologia 5G.

E non gli è bastato neppure il bando contro il social network cinese Tik Tok, dedicato soprattutto alla diffusione dei video musicali e diventato ben presto assai popolare anche in Occidente, in particolare tra il pubblico giovanile.

Ora la guerra digitale, anche con la nuova presidenza Biden, assume connotazioni ancora più forti. Nel mirino di Washington entra infatti pure la app WeChat, un servizio di messaggeria universale sviluppato dalla società cinese Tencent, e disponibile per i dispositivi Android, nonché per gli iPhone e Windows Phone.

E’ utilizzata soprattutto nella Repubblica Popolare ma, col tempo, è divenuta una sorta di ponte tra le economie americana e cinese. Può essere paragonata a WhatsApp, che fa parte del gruppo Facebook e, scaricata sui cellulari, consente operazioni impensabili fino a pochi anni orsono.

Il problema è che WhatsApp, al pari di Facebook, Google e ogni dispositivo occidentale, in Cina è proibita, e ai cittadini cinesi non è consentito accedere. WeChat svolge nella Repubblica Popolare le stesse funzioni ed è diffusissima.

A differenza dei cinesi cui non è consentito usare WhatsApp, tuttavia, i cittadini occidentali possono scaricare WeChat, che risulta molto utile per coloro che con la Repubblica Popolare, e con le nazioni orientali in genere, intrattengono rapporti economici e d’affari.

Il sospetto Usa è sempre lo stesso. Il governo americano accusa pure WeChat di essere uno strumento che Pechino utilizza a piene mani per controllare i dati dei cittadini occidentali mettendoli a disposizione del Partito Comunista Cinese.

Lo stesso copione, insomma, utilizzato contro Huawei, Zte e più recentemente Tik Tok. I sospetti non sono privi di fondamento poiché tutte le aziende cinesi, di qualunque tipo, sono strettamente collegate al governo e non potrebbero, se richieste, rifiutarsi di fornire i dati di cui sopra.

A tutto ciò si aggiungono altri sospetti, questa volta riguardanti il mondo universitario. Gli Usa, seguiti ormai da tanti Paesi occidentali (Italia esclusa), stanno procedendo speditamente a chiudere i celebri “Centri Confucio” aperti negli atenei di tutto il mondo con il sostegno finanziario di Pechino. Sono accusati di essere, più che istituzioni culturali volte a promuovere lingua e cultura cinese, centri di spionaggio e cassa di risonanza della propaganda del Partito Comunista.

Comunque sia, il fatto è che la Repubblica Popolare costituisce un grande mercato di sbocco per le aziende hi-tech Usa, ad esempio per gli iPhone che sono diventati una sorta di status symbol per molti giovani cinesi. Ma nella Repubblica Popolare un iphone senza WeChat diventa in pratica inutilizzabile.

In Occidente gli Apple Store non potranno più fornire l’applicazione made in China, e le aziende Usa nutrono ovviamente grande preoccupazione per la possibile perdita dell’enorme mercato cinese.

Con questo Trump, pur in scadenza di mandato, aveva portato ai massimi livelli la sua strategia di decoupling (disaccoppiamento) tra l’economia Usa e quella cinese, senza troppo curarsi delle ricadute di tale strategia negli stessi Stati Uniti.

Tuttavia, anche dopo le elezioni del 3 novembre. è facilmente ipotizzabile la continuità nel distacco, forse addirittura accentuato. In questo senso la vittoria democratica non ha modificato la situazione.

Joe Biden, che ha a più riprese criticato la Repubblica Popolare sul tema dei diritti umani, non ha ancora fatto capire in modo chiaro che cosa intende fare in materia di rapporti economici e commerciali con il Dragone. Ed è, questo, uno degli aspetti che rendono le relazioni Cina-Usa un rebus difficile da decifrare.

 

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.