‘OMICIDIO AL CAIRO’ LA METAFORA DI UN SISTEMA

Di Turi Comito

Qualche notte fa mi è capitato di vedere un film che mi ha molto colpito. È uno di quei film che, alla fine, lascia come sospesi in uno spazio in cui non si riesce bene a mettere a fuoco il senso del film. Non è chiaro, cioè, se il livello di comprensione del racconto deve essere mantenuto alla narrazione pura e semplice dei fatti o se c’è qualcos’altro, per esempio se il film è usato come metafora.
Alla fine, sceso dalla sospensione, ho deciso che questo racconto può essere l’una e l’altra cosa. Anche se io preferisco l’altra, cioè la metafora e, in particolare, la metafora di un sistema e di come certi uomini quel sistema vivono intimamente.
Il titolo del film è un banale “Omicidio al Cairo” e la storia – tutt’altro che banale però – si svolge nei giorni immediatamente precedenti la sollevazione popolare che porterà alla caduta del moderno faraone d’Egitto Mubarak e ha come protagonista un graduato della polizia. Un tizio non giovane né vecchio, brutto, allampanato, che vive in una specie di topaia disordinata in uno dei tanti quartieri formicaio del Cairo. Come tutti i suoi colleghi, e come una moltitudine infinita di altri soggetti, è corrotto fino alle budella. Ma a differenza degli altri non pare interessargli né l’accumulare denari (frutto della corruzione) né il progredire nella carriera. Vive una specie di rassegnazione annoiata, uno stato di torpore fisico e intellettuale quasi totale. Non si stupisce né si indigna per nulla.
Né per l’estrema povertà e l’estrema ricchezza che vivono fianco a fianco, né per la corruzione endemica a tutti i livelli della società, né per l’ipocrisia dei potenti o dei subordinati.
Questo poliziotto, a differenza di tutti gli altri soggetti che appaiono nella storia – che siano coprotagonisti o semplici personaggi di contorno – i quali si danno un gran daffare o a sbarcare il lunario con espedienti o a gestire affari milionari nell’ombra della illegalità, sembra morto, senza passione, senza fretta, senza scopo alcuno. Semplicemente si trascina nella sua abbastanza miserabile vita fatta di giorni tutti uguali e tutti senza senso.
Nell’osservare il suo comportamento mi tornava alla mente il capitano senza nave di Joseph Conrad de “la linea d’ombra” laddove il protagonista, ad un certo punto, dice, più o meno, “tutto intorno a me non sembrava altro che un succedersi di giorni perduti”.
E così come cambia verso la vita del capitano di Conrad allorché, inaspettatamente, riceve l’incarico di comandare un mercantile, così anche per il poliziotto egiziano c’è un momento di rottura nel suo trascinarsi. Una giovane cantante famosa per la estrema bellezza e la grande bravura viene trovata uccisa in una stanza di uno degli alberghi più importanti del Cairo. Il poliziotto è incaricato di condurre le indagini. I suoi superiori – poiché risulta evidente che in questa morte è coinvolto un potente imprenditore nonché amico personale di Mubarak, nonché parlamentare – pensano che la cosa migliore sia insabbiare il caso (anche se avranno una sorpresa su questo fronte).
Lui no. Lui, quasi incredibilmente, vuole capire cosa è successo, vuole andare fino in fondo, ad ogni costo, sfidando superiori, politici e potenti vari e variamente corrotti.
Ci sarebbe da capire perché.
Perché quest’uomo rassegnato e senza ambizioni si lancia in una specie di guerra contro tutti? Per scrollarsi di dosso la noia? Per una sopita, ma ancora viva, vocazione da investigatore? O perché la cantante uccisa significa l’assassinio della bellezza? Propendo per quest’ultima ipotesi. Non è l’omicidio in sé che pare attrarre il poliziotto né il mistero e il groviglio di interessi che ruota attorno a quella morte. È piuttosto il volere vendicare l’ingiuria all’ultima cosa che resta degna di attenzione in un mondo totalmente squallido, la bellezza appunto, che lo spinge nella sua personalissima guerra.
Una guerra da cui uscirà perdente e vincente allo stesso tempo.
Attorno a lui – sono i giorni delle rivolte popolari contro il regime, lo ricordo ancora – infuria ormai la battaglia. La sopportazione di migliaia, milioni di individui, è diventata prima rabbia e poi violenza e desiderio di cambiamento. Lui, il poliziotto, torna invece al punto di partenza. Il caso, in qualche modo, è risolto, l’oltraggio alla bellezza è stato vendicato. Sta in questo il suo essere vincente. Ma poiché tutto ciò che attorno accade non gli interessa è tempo di tornare alla rassegnazione e al trascinare una vita vuota e senza redenzione. E in questo sta il suo essere perdente.
Cupo, a tratti claustrofobico, ossessivo nel suo raccontare una società malata e sfaldata, meticoloso nel disegnare caratteri umani uno peggiore dell’altro, a me questo film non è sembrato un film sull’Egitto della cosiddetta primavera benché il regista sia uno svedese di padre egiziano e con solidi legami culturali con quei paese.
A me questo film è parso una metafora di un modo di vedere il mondo, una visione nichilista nella fattispecie, che è una condizione umana presente da sempre – certe volte più evidente e certe altre meno – nelle società a qualunque latitudine e in qualunque tempo siano collocate.

#TuriComito

Funzionario direttivo presso Regione Siciliana. Dipartimento di Bruxelles e degli Affari Extraregionali.
Regione Siciliana
Palermo, Italia