Di Mario Rigli
Era la prima metà del mese di ottobre del 1967. Ancora il maggio francese ed il sessantotto italiano avevano qualche mese di viaggio per raggiungerci. Non ricordo il giorno, ma cercherò di ricostruirlo. Era freschetto, quest’anno. Per la festa di Settembre qualcuno aveva acceso anche un falò per riscaldarsi durante i fuochi artificiali di chiusura, e le foglie erano già gialle e molte in terra, nonostante quello che si dicesse sul buco dell’ozono e dell’aumento della temperatura globale.
Stavo tornando dal “Convento” con Antonio, non ricordo di cosa parlavamo, probabilmente di qualcosa da organizzare o del professore di italiano e le sue bizzarre particolarità, quel Carlo Spinelli che era il professore di tutti e due anche se Antonio era una anno dietro di me. Non dietro per ragioni di apprendimento, ma solo per ragioni anagrafiche. Camminavamo piano lungo via Fazia, perennemente all’ombra, sovrastata da quella enorme struttura del Convento delle Benedettine, il nostro ritrovo e laboratorio di idee e di iniziative, e faceva un po freddino. Ci stavamo dirigendo, Antonio ed io, fuori del paese, entrambi stavamo oltre le mura.
Don Felice era là in fondo alla strada, appoggiato al muro della villetta della Contessina una bassa ed antica costruzione proprio davanti alla sua chiesa del Pozzo. Sembrava guardasse i ragazzi giocare nel campetto, ma il suo sguardo era assente, lontano mentre fumava la sigaretta. L’altra mano era in tasca, il bavero del giubbetto alzato e la camicia sotto, sbottonata alla gola. Non portava quasi mai l’abito talare, tanto meno il collare. Non aveva bisogno di distintivi per testimoniare il suo amore per Dio e per l’uomo. Cosa c’è Felice gli chiedemmo, hai sonno? sembri assente. Hanno ammazzato Ernesto rispose. Dopo un attimo di smarrimento capimmo. Si riferiva a Che Guevara, era così che lui chiamava De la Serna, Mi sentii come un pugno nello stomaco ed un groppo alla gola. Quante volte ne avevamo parlato! Quante volte avevamo espresso convincimenti e perplessità sulla lotta armata anche se condotta in paesi come la Bolivia. Ma come potevamo mettere in discussione un uomo che rischiava la sua vita in ogni parte del mondo ove ce ne fosse bisogno? Che viveva nella convinzione di riscattare i più deboli ed i diseredati?
Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi ci dicevamo spesso, ma quando dell’eroe ce ne era bisogno, poteva capitare che dovesse per forza imbracciare il fucile. Quanti paragoni e similitudini avevamo fatto con i nostri partigiani sulle montagne.
“Sono dispiaciuto perchè ci ha lasciato, disse a voce bassissima, un uomo che credeva negli uomini, che credeva nell’umanità, e mi sento male stasera, mi sento un vuoto dentro come quando quattro o cinque anni fa ammazzarono Patrizio, ve lo ricordate?”
Patrizio era Patrice Lumumba, ma lui chiamava tutti in italiano e lo avrebbe fatto anche se avesse conosciuto l’inglese. Ci ricordavamo bene dell’assassinio di Lumumba da parte dei militari di Mobuto, ci ricordavamo anche che poi lo avevano sciolto nell’acido per non farne un martire e per cancellarne ogni ricordo. Ma non sapevamo che al fianco di Lumumba combatteva Che Guevara, come ci disse Felice, non sapevamo che da Cuba il Che era andato in Congo per quella lotta di liberazione.
Salutammo Don Felice mentre schiacciava la cicca sotto la suola, ma prima di andare ci disse:
“Ricordatevi che dovete sempre essere dalla parte che ci indica Lui, dovrete essere anche eroi se ce n’è il bisogno e speriamo che non abbiate mai il bisogno di imbracciare il fucile. Alleatevi con le parole come dice Don Lorenzo, sono molto più importanti delle pallottole ed arrivano più nel profondo, non si limitano alla carne”.
Doveva essere il 12- 15 ottobre, Guevara fu ucciso il 9, ma le notizie allora arrivavano in ritardo. Nei giorni susseguenti avremmo visto la sua immagine nella rivista Settegiorni, avremmo saputo che gli erano state tagliate le mani, che era stato ammazzato con raffiche a bruciapelo il giorno dopo averlo fatto prigioniero. E da allora ho sempre la sua immagine scolpita nella mente, non quella famosa di Korda, ma quella del suo cadavere ad occhi aperti, quella immagine dove è bello come un Cristo Morto, più bello del Cristo Morto del Mantegna, più bello di quello di Gregorio Fernandez o di Rubens o del Carracci. Ed insieme a questa ho sempre nel cuore l’immagine di Don Felice con il bavero del giubbotto alzato, la camicia slacciata mentre fuma una sigaretta.
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