L’isola che non c’è

Di Rino Girimonte

“Le generazioni non si succedono, si divorano e si assasinano l’una all’altra”, si rubano lo sguardo sul mondo, relegano le speranze del prima in successive istantanee sfocate, sempre in bianco e nero, che è il colore del tempo che passa. Si corre, per chi ha gambe per farlo, immaginando il futuro non più in là del tempo che trascorre tra il risveglio, a qualsiasi ora, e il riposo del guerriero che torna ogni notte dalle crociate. La trasmissione s’interrompe, si crea un vuoto tra passato e presente, nonostante ogni briciola di vita sia cableata, perché la comunicazione non è più orale, fa a meno dei corpi, gli stimoli sono a distanza, ed è increscioso vedersi seduti di fronte, mentre ci scambiamo messaggi virtuali.
La tecnologia, gli sviluppi scientifici, creano magnifiche condizioni per migliorare la salute e le cure, che è come un rinvio della morte e, al netto di virus che si comportano da virus, (che anche loro sono metafora e sintesi tra modernità e primi vagiti sulla terra e di sfrenata appropriazione di risorse) si allunga la vita e la nostra permanenza, che va bene, solo che ci sopportiamo sempre meno. Si affastellano più voci, bisogni differenti, difficili da conciliare, nella stessa stanza, nel domicilio sociale comune, e cresce la discrasia, una complicata mescolanza tra epoche, sensibilità, sentimenti diversi, sinfonia di esperienze e disarmonie inconciliabili, che se gli uni s’afferrano a voler conservare quel che resta, gli altri non hanno tempo da perdere, perché ne hanno di più, e lo bruciano come un campo secco occupato da sterpaglie.
Siamo i carabinieri di noi stessi, ci ammanettiamo al pregiudizio, alla nostra tribù, ognuna con il proprio linguaggio, con i propri segni e colori, ci volgiamo le spalle e, tra silenzi che giacciono statici in poltrona e corse ubriache a cacciare la luna, si veste la notte. Per chi la teme, con pigiama di flanella, mentre i corpi giovani e scolpiti, in cerca di luce riflessa, lisci come arazzi per tatuaggi, l’attraversano ad occhi chiusi senza paura di andare a sbattere. Così va il mondo, un rincorrersi di microsolitudini, come se noi non fossimo mondo, come se io non fossi quel che fui. E, se non fossi stato quel che fui, con tutto il carico di vissuto nello zaino, con tutta la merda attaccata alle suole delle scarpe, che mi han condotto fin qui, come potrebbero prender forma i sogni miei di domani? E ve lo assicuro, non si smette mai di sognare, a qualsiasi età. Stiamo restando senza tempo perché ce lo mangiamo senza respirare, senza pause, perché abbiamo perso il nostro posto nello spazio, perché lo spazio e questo tempo sono diventati distopici, mentre la distanza obbligata è terapia di sopravvivenza. Ma non rinunciamo all’utopia, anche se sappiamo che è un’utopia, non rinunciamo al viaggio verso l’isola che non c’è e, per il solo fatto di pensarla e di cercarla, ci avviciniamo ad essa, anche a nostra insaputa. È quello che voglio credere.