Il voto in Myanmar

Di Michele Marsonet

Altro trionfo elettorale per Aung San Suu Kyi, che ha ricevuto nel 1991 il premio Nobel per la pace. Il suo partito, la “Lega Nazionale per la democrazia”, ha infatti ottenuto la maggioranza assoluta dei voti nelle elezioni politiche del Myanmar e potrà di nuovo formare il governo senza contrasti, anche se lo spoglio delle schede non è ancora concluso.
Strano destino quello di Suu Kyi, ora 75enne. Tutti rammentano che nell’ultimo decennio del secolo scorso raggiunse una grande popolarità in Occidente per la sua strenua opposizione alla dittatura militare birmana. I generali la tennero segregata per molti anni, fino a che un mix di moti popolari e pressioni internazionali condussero alla sua liberazione.
Divenne quindi una vera e propria icona della democrazia e dei diritti umani, e tutti facevano a gara per invitarla. Politici e media occidentali, tuttavia, non si accorsero che Suu Kyi aveva, della democrazia e dei diritti umani, una visione ben diversa dalla nostra.
Ben presto si capì, quando il Nobel per la pace le era già stato assegnato, che era invece una leader nazionalista decisa a sfruttare il fatto che la Birmania – ora Myanmar – è una nazione con schiacciante maggioranza buddhista. Vi si pratica la dottrina theravada che prevale in tutto il Sud-Est asiatico.
Ha quindi adottato una linea identitaria che vede considera il buddhismo come legame unificante del Paese, in modo non dissimile da quanto avviene nella vicina Thailandia. Le minoranze religiose, in particolare cristiane e islamiche, subiscono anche pesanti persecuzioni.
Il caso più noto è quello dei Rohingya, popolazione musulmana che il governo centrale intende privare della cittadinanza favorendone l’emigrazione nel Bangladesh. Il problema è che Aung San Suu Kyi non si è affatto opposta alle politiche di discriminazione in atto nel suo Paese.
All’entusiasmo provocato in Occidente dalla sua liberazione è poi seguita una grande delusione nei suoi confronti, il che ha comportato un progressivo indebolimento degli investimenti occidentali che erano giunti dopo la fine del regime militare.
Nel varco si è subito inserita la Cina, che al Myanmar ha assegnato un grande ruolo nel progetto della “Nuova via della seta” voluto da Xi Jinping. Il Paese occupa una posizione strategica nel Sud-Est asiatico che la Repubblica Popolare considera prezioso concedendo investimenti finanziari e infrastrutturali copiosi. E l’attuale crisi degli Usa induce a credere che l’influenza di Pechino continuerà ad aumentare.
Dunque il Myanmar – la ex “Burma”, una delle perle dell’impero inglese – rischia di entrare in modo definitivo nell’orbita della Repubblica Popolare Cinese i cui governanti, com’è noto, non ritengono essenziale il tema dei diritti umani (giacché essi stessi non li rispettano).
Nel frattempo l’Esercito continuerà a svolgere un ruolo di rilievo nel parlamento birmano, essendosi riservato un notevole numero di seggi. Si noti tra l’altro che tra i militari e il partito di Suu Kyi non esistono ora grandi disaccordi, giacché entrambi concordano sull’identità religiosa della nazione e sulle negazione che vi sia stato un genocidio ai danni dei Rohingya.
A questi ultimi, come ad altre minoranze etniche che vivono soprattutto nelle aree settentrionali del Paese, è negato il diritto di voto e, da questo punto di vista, la situazione non è affatto mutata rispetto ai tempi in cui i militari detenevano tutto il potere.
Queste vicende inducono a chiedersi fino a che punto si può prendere sul serio l’annuale assegnazione del premio Nobel per la pace. Occorre ammettere che un riconoscimento siffatto è sempre soggetto a un alto grado di opinabilità. Ne consegue che ogni anno la giuria ha le sue belle gatte da pelare quando si tratta di scegliere tra una rosa di nomi – o di istituzioni – assai ampia. Ovvio che le polemiche a posteriori ci sono sempre. Anche se, superando il tabù della correttezza politica, si ha la sensazione che il riconoscimento in fondo non incida più di tanto.
Nel 1973 toccò a Henry Kissinger (pur in coppia con il nordvietnamita Le Duc Tho), e gli ambienti di sinistra non hanno mai digerito il riconoscimento all’aborrito Segretario di Stato di Richard Nixon. Nel 1991 fu per l’appunto premiata Aung San Suu Kyi, e dei problemi suscitati dal suo caso si è già parlato. Non molto meglio è andata con Barack Obama, premiato “sulla fiducia” poco dopo il suo ingresso alla Casa Bianca quando non si sapeva come si sarebbe comportato.
Viene spontaneo concludere che si tratta, piuttosto, di un evento puramente mediatico, destinato a riempire soprattutto i rotocalchi. Un sospetto maligno, naturalmente, ma che forse non è privo di fondamenti, come anche la vicenda di Suu Kyi dimostra.

Michele Marsonet

Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in seguito all’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Scholar” presso le Università di Oxford e Manchester (U.K.), e di New York (U.S.A.).
– È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Filosofia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova.
– È stato Prorettore all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova.
– È Fellow del New College dell’Università di Oxford (U.K.), e del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (U.S.A.).
– È stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri tra cui: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (U.S.A.), Melbourne (Australia), Oxford, Londra, Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna).
– È autore di 26 volumi e curatele, di cui 4 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano, inglese e francese su riviste italiane e straniere.
– È giornalista pubblicista.