E’ morto Sepulveda, il poeta guerriero fermato solo dal virus

“Ogni azione della nostra vita, anche la più piccola, è responsabile della bellezza o bruttezza del mondo.“
Augusto Daolio.

Con questa frase forse si può descrive sommariamente il grande scrittore Luis Sepúlveda, che ci lascia oggi, per colpa di un virus letale di cui non abbiamo ancora difese. Sepúlveda era un combattente, uno scrittore, un poeta, un uomo che ha portato l’umanità alla riflessione sulla bruttezza e la bellezza del mondo. Con la penna e la voce come megafono per amplificare i suoi scritti, ha posto un segno tangibile nella nostra esistenza. Lo ha fatto come poeta, giornalista, come attivista politico in Cile, il suo paese, che ha lasciato dopo un’intensa stagione conclusasi drammaticamente con l’incarcerazione del generale Augusto Pinochet, da parte del regime. Sepùlveda ha poi viaggiato per tutta l’America Latina e poi nel resto del mondo, si è imbarcato e ha fatto parte degli equipaggi di Greenpeace e dopo aver risieduto ad Amburgo e a Parigi, è andato a vivere in Spagna, nelle Asturie.

Oggi Sepúlveda si è spento in un ospedale di Oviedo. Il Covid-19 ha ucciso anche lui, l’ultimo dei combattenti. Aveva 70 anni.

Impegnato in tante battaglie, sempre in guerra contro un potere tiranno (i dittatori dell’America Latina ma anche le multinazionali che avevano condannato i paesi del Cono Sud a una dipendenza economica che somiglia alla schiavitù) Lucho stava dalla parte degli oppressi, quelli che la legge dei padroni considerava banditi, fuorilegge. E lui era nato fuorilegge, con “un mandato di cattura” che pendeva sulla testa di suo padre, José Sepúlveda, cuoco e comunista, che la famiglia di Irma aveva denunciato per “rapimento di minorenne e sequestro di persona”. Così era nato a Ovalle, cittadina del Nord, in una modesta camera d’albergo. La sua vita era stata quella di un uomo in fuga, dal Cile di Pinochet (finito in carcere due volte, era stato liberato grazie ad Amnesty International) e dalle altre dittature del Sudamerica. Per approdare in Europa, ad Amburgo, pronto per il nuovo impegno con gli attivisti di Greenpeace in lotta contro i crimini dello sviluppo mondiale che stava distruggendo gli equilibri naturali. In fuga, certo, ma senza perdere mai la grande vocazione di narratore che lo accompagnava fino da quando, giovanissimo, aveva pubblicato i primi racconti.
 
Un idealista dal passo ostinato e contrario, esordì con un racconto che venne giudicato pornografia, dal preside del suo liceo a Santiago del Cile. Nel ’63, così raccontò il suo esordio da scrittore: “ci innamorammo tutti della nuova professoressa di storia. La signora Camacho, una pioniera della minigonna”. Un compagno chiese a Luis di scrivere una storia su di lei. Quindici/diciotto pagine che arrivarono nelle mani del preside…”Questa è pornografia”, gli disse. Provò a replicare: “Letteratura erotica”. “Pornografia, tagliò corto, ma scritta molto bene”.
 
Aveva la maestria di pescare dal cilindro l’ennesimo saporito aneddoto anche quando di lui i lettori pensavano di conoscere già tutto. La sua immagine da guerriero stanco, gli occhi scuri che si accendevano per le cose in cui credeva, il fumo e l’odore delle tante sigarette fumate. Un talento dal fascino indiscusso che lo rendeva oltre che un abile scrittore, un inguaribile cantastorie. Un favolista, un novelliere, che raccontava dentro ogni storia la morale della vita e ci indicava la via più giusta da seguire. Ci siamo persi nella deliziosa “Storia di una gabbianella e del gatto” che le insegnò a volare, e nei suoi tanti romanzi, al cui centro c’era l’eterna lotta tra il bene e il male. Non era per il racconto minuzioso e statico. Per Luis Sepúlveda, la letteratura era fatta di finzione che intrecciava fili nella narrativa per dare vita a personaggi picareschi e trame avventurose inzuppate di passioni e ideali. Descriveva nei suoi personaggi i suoi ideali, quelli per cui aveva lottato, viaggiato e infine scritto.
 
Esordì con “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, dedicato a Chico Mendes, regalando ai lettori un primo pezzo della sua intensa vita: sette mesi trascorsi nella foresta amazzonica con gli indios Shuar. Nel 1977, espulso dal Cile dopo due anni e mezzo di carcere, si era unito a una missione dell’Unesco per studiare l’impatto della civiltà sulle popolazioni native. Nacque così una storia sospesa tra due mondi, quello degli indios diffidenti nei confronti dei bianchi (cacciatori di frodo, cercatori d’oro, avanguardie dell’industria più feroce) e quei bianchi che al protagonista avevano insegnato a leggere, dandogli così un rifugio per la perdita della giovane moglie.
  
Il suo secondo romanzo “Il mondo alla fine del mondo” descrisse ciò che gli era sembrato inevitabile, e come un paladino, cerca di fermare una nave che pratica la caccia alle balene. E li dal ponte di una nave di Greenpeace, l’organizzazione a cui si era unito negli anni Ottanta combatte le navi-fabbrica che trascinano a bordo balene esangui e si trasformano in mattatoi, inseguimenti tra le nebbie dell’Antartide, militanti ecologisti contro pescatori giapponesi.
 
Pagine e pagine della sua vita così avventurosa, dall’attivismo alla letteratura tutte compresse nelle sue storie. Della sua militanza politica, si racconta ne: “La frontiera scomparsa”. I racconti che compongono il libro seguono le tappe di un cileno che dalle prigioni di Pinochet ritrova la libertà attraversando l’Argentina, la Bolivia, il Perù, l’Ecuador, la Colombia, in treno o su veicoli di fortuna fino a Panama dove si imbarcherà per la Spagna. Nelle varie interviste dove gli veniva chiesto, perché mai ci avesse messo tanto a trasformare quell’esperienza in letteratura, lui rispondeva con un sorriso beffardo, che quella era letteratura e non psicoletteratura. Detestava il pathos, aveva bisogno di mettere tra lui e il Cile la giusta distanza, raccontandone come un osservatore fuori dalla mischia. Dal dramma si risollevava con la lingua: semplice, netta, sintetica. Tutto il contrario di Gabriel García Márquez che invece era molto realistico più pragmatico, senza nessuna magia… dove la magia poteva essere considerata la realtà. Ci pensava già la vita ad essere fantasiosa con i suoi fasti e le improvvise cadute.
Nella sua pseudo biografia “La lampada di Aladino” tra mercanti levantini e angeli vendicatori, due giovani condividono le lotte del movimento studentesco e si ritrovano dopo gli anni della dittatura cilena e l’espatrio. Era il racconto della sua storia d’amore con la poetessa Carmen Yáñez. La loro relazione affiorò anche nel noir Un nome da torero. Il protagonista, che si chiama Juan Belmonte come il celebre torero che si suicidò con un colpo di pistola, è un ex guerrigliero cileno di quarantaquattro anni, che accetta di dare la caccia a un tesoro nazista nella terra del fuoco solo per amore di Veronica, una donna torturata dai militari e ritrovata viva, ma in condizioni psicologiche disastrate, in una discarica di rifiuti a Santiago. In verità le cose non andarono proprio in quel modo, ma per Sepulveda non poteva essere diversamente, nessuna sua esperienza era raccontata senza che fosse trasformata in maniera letteraria, regalava pezzetti di vita ai suoi personaggi, ma le biografie no, quelle le lasciava ad altri.
 

Giocava coi generi: le favole per i sentimenti universali (oltre alla storia della Gabbianella, quella del gatto e del topo che diventò suo amico, della lumaca che scoprì la lentezza e del cane che insegnò a un bambino la fedeltà). Il genere noir, per denunciare l’arroganza dei potenti, la solitudine degli sconfitti o, come in “Diario di un killer sentimentale”, l’orgoglio di un uomo tradito. I racconti per mettere a nudo dopo un lento processo di maturazione le sue idee e passioni, un esempio fu: “Incontro d’amore in un paese in guerra”.
 

Si può essere intelligenti con leggerezza e leggeri con intelligenza è il segreto delle sue diverse forme letterarie, l’uso della calviniana leggerezza della lingua. Leggere Sepúlveda non è complicato, le pagine scivolano sotto gli occhi ma le passioni di cui parla, i fantasmi che evoca, i grandi amori, gli ideali irrinunciabili, lasciano tracce indelebili nella memoria dei lettori. Era cosciente di questo Sepúlveda. Lo aveva anche raccontato nel poliziesco: “L’ombra di quel che eravamo”,
un libro impegnativo, che induce il lettore a porsi delle domande, capace di fornirgli nuovi spunti di riflessione ma senza invadenze e in questo Sepúlveda è stato un maestro. Una storia di amicizia e speranza tra assalti alle banche, vecchi giradischi, un rocambolesco omicidio e un’ultima spregiudicata azione rivoluzionaria. In una notte piovosa a Santiago, quattro uomini che si erano persi di vista per più di trent’anni si ritrovano per un’ultima avventura.
Lo spunto per questo libro gli venne nel corso di una grigliata a casa di un amico, un dirigente del Fronte Patriottico Manuel Rodriguez, (movimento armato che avversava Pinochet). A fine cena, rievocarono racconti di resistenza e lotta. Sepúlveda percepì chiaro che il suo amico e lui cavalvavano ancora l’ombra di ciò che erano stati. L’ombra per esistere ha bisogno di luce. Ci lascia Sepúlveda, un uomo che ha cercato di infonderci una luce di speranza nel mare magnum di un’umanità allo sbando. La luce e dentro ogni suo libro e rimarrà impressa per sempre nella nostra memoria.