Di Mario Rigli
Per parlare di Michele Viciani e della sua pittura bisogna fare alcune premesse:
* Il cognome, esageratamente toscano, evoca subito assonanze e rimanda direttamente ai “Macchiaioli”, (Cecioni mi viene in mente di primo acchito).
*L’aspetto fisico: capelli lunghi, baffetti e barba vagamente “moschettieri”, l’andatura trasognata e trasognante, e pensi alla “Scapigliatura” lombarda.
* Il suo modo di essere con gli altri, il suo abbigliamento, il suo pensare e scorgi un artista a tutto tondo, un artista con la A maiuscola, fuori da tutte le correnti, tutti gli “…ismi” e gli “…isti”, se stesso sempre e collocabile in qualsiasi periodo od epoca. Personaggio perfetto del nostro tempo, ma con “viapass” per qualsiasi dogana temporale o spaziale.
Ho parlato di macchia e di scapigliatura, due movimenti che, al di là delle inevitabili teorizzazioni, ricorrevano ampiamente alla pittura dal vivo, alla pittura “en plain air”.
Ebbene Michele è un pittore “en plain air”.
C’è un certo riserbo negli addetti e nella critica verso questo tipo di pittura, abituati come siamo oggi a cervellotiche elocubrazioni che ci fanno accettare più facilmente qualsiasi tipo di gestualità da una parte, o inverosimili astrazioni dall’altra, senza negare niente alle forme alte di queste espressioni, piuttosto che sentite ispirazioni e vocazioni ad un figurativo pregno di sentimento e poesia.
Occorre ben dire che spesso, nella pittura dal vivo, condotta fra l’altro in gran parte in studio, ci si imbatte in stucchevoli atmosfere di improbabili ed edulcorati cromatismi.
Non è questo il caso di Michele, ma le sue coloniche,le sue marine, i suoi boschi, i suoi campi, i suoi argini dell’Arno, il fiume che lo ha cresciuto e che ama come un padre, al di là di ogni facile emozionalità ci assalgono nel profondo, ci fanno sentire attori e partecipi della figurazione e ci tirano dentro.
Michele è capace di aspettare giorni e giorni per ritrovare le stesse condizioni di luminosità nell’ambiente e di luce interna per terminare un quadro incompiuto. Più volte ritorna nello stesso luogo, incapace com’è di finire un lavoro che “sente” nello studio.
E neppure è schiavo di un realismo a tutti i costi, è agli antipodi di un “iperrealismo” anch’esso oggi di moda.
Le sue figurazioni sono quello che si vede, ma anche molto di più.
Una sua immagine sulla tela è così: il suo stile, i suoi colori, il suo linguaggio, la sua espressione, dicono esattamente come essa è.
Ma esistono anche zone riservate ed ombre.
Come una faccia non è solo pura vetrina o la maschera che si vede; così nella pittura di Michele, come in un volto, si manifestano reticenze, circonlocuzioni, eufemismi, occhi ombrosi e distolti, lapsus, gesti esitanti, ripensamenti.
Non c’è niente di ovvio o di semplice in un suo quadro come in una faccia, ma il presunto nascosto è anch’esso in vista e suscettibile di essere notato, anzi è parte importante e integrante che Michele offre a chi sa guardare.
Uno sguardo attento allora può percepire le pieghe di una complessità dietro la semplicità apparente, quelle curve dentro/fuori, sotto/sopra dell’implicito che sono la verità vera dell’immagine.
Come in un volto.
- Taiwan è “un’isola del tesoro”, e Pechino la vuole - 10 Luglio 2021
- L’eterno ritorno dell’antisemitismo - 13 Giugno 2021
- Popper e Lorenz sull’evoluzionismo - 21 Maggio 2021