Buon Compleanno babbo

DI MARIO RIGLI

Buon compleanno Papà! Opss! scusa Babbo.

Rigli“Natale” di Lisa Turrini

Dai, non ti incazzare troppo. L’ho fatto per scherzo. So bene che odi la parola Papà, l’hai sempre considerata troppo sdolcinata e leziosa anche quando ti chiamava così Letizia piccolina. Anche lei lo faceva apposta e ridevamo tutti delle tue arrabbiature e in fondo anche quelle, non vere e fatte solo per burla.
Buon compleanno Babbo. Contento ora?
Oggi avresti 100 anni. Ci pensi? 100 anni, un secolo!
Non sei con noi da un po’, anzi ci sei ancora come sempre. La tua presenza è ovunque quando ci riuniamo fra fratelli, quando ci riuniamo con i figli dei fratelli, quando ci riuniamo con i figli dei figli dei fratelli. Ci sei comunque.
E non sei solo con noi, nelle nostre riunioni di famiglia, sei ovunque nel tuo paese, per chi sappia cogliere la tua presenza.
La tua presenza è stata forte fra le tue mura e ancora si vedono tracce del tuo passaggio. Se ci fosse stato Facebook ai tuoi tempi tu saresti certamente nel gruppo “sei terranuovese se..”
Si, tu sei stato terranuovese senza se e senza ma. Amavi la tua terra nel profondo, a lei hai dedicato gran parte del tuo tempo.

Natalino e Natalone

Le tue tracce si vedono ancora. Ancora tutti si ricordano di te bidello, anzi custode, come si chiamava allora in modo più intimo. Eri “Natalone” per tutti, non perché fossi eccessivamente grosso, ma perché fosse più secco l’altro custode “Natalino”. Allora erano tempi eroici, i bidelli non facevano solo i bidelli, ma pulivano le aule, i corridoi, i vetri interni ed esterni, servivano il latte nell’intervallo, servivano alla refezione. Allora non c’erano le coop di aiuto nelle pulizie. I Custodi chiamavano le mogli e i figli a dar loro una mano. Quanti pomeriggi, abbiamo passato a dare e a togliere la segatura nei corridoi! Allora si puliva così. E nel frattempo, io e mio fratello abbiamo imparato ad andare nei pattini in quei corridoi lunghissimi. Avevamo già svuotato i cestini delle aule, separando la carta, che vendevamo alla cartiera del paese, dall’organico, bucce di banane e di arance. Allora c’era la differenziata prima ancora che fosse inventata, del resto la plastica non era ancora presente. Mi ricordo quando la mattina alle cinque, mi portavi con te ad accendere la caldaia a gasolio per il riscaldamento, e preparavi il latte in polvere dell’UNRRA per l’intervallo. Già il latte degli americani, dell’United Nations Relief and Rehabilitation Administration nata per per assistere economicamente e civilmente i Paesi usciti gravemente danneggiati dalla seconda guerra mondiale. E come piaceva ai ragazzi! Non a me che avevo le mucche nella stalla proprio sotto la camera. E mentre tu preparavi il latte io avevo il compito di riempire i calamai dei banchi in legno massello di inchiostro.

– Attento a non versarlo di fuori – mi dicevi, ma io non stavo eccessivamente attento, i banchi erano pieni di macchie di anni e poi erano di color nero.
Poi un paio d’ore a nocetta a “Strabuzzoni”, qualche tordo e poi di corsa scuola. Tu o Natalino dovevate suonare la campanella. Già, allora la campanella non era elettrica, ma di bronzo e doveva essere suonata con la sua cordicella. Tutti e due i custodi erano esperti “campanari” ed i ragazzi riconoscevano bene la differenza fra suono di entrata, di intervallo e di uscita.

…..
(Fuori testo )

Quando ho visto al tg che riaprivano le scuole nei paesi terremotati, quando ho sentito trillare il campanello il mio pensiero è andato subito a mio babbo. A mio babbo ed al suo amico e fratello Natalino. Si Natalino e Natalone. Il loro campanello non si suonava con un pulsante elettrico, non bastava l’indice che premeva. Il loro suonare era un’arte. La cordicella lunga un paio di metri che portava alla piccola campana doveva essere tirata e agitata con cura e perizia affinché i ragazzi sentissero il messaggio. Non importava la stanchezza di aver caricato di gasolio la enorme caldaia che dava calore a tutto l’istituto. E non importava se lo facevi dalle cinque, più di due ore prima dell’alba. La mano che tirava quella cordicella era comunque sciolta. Non importava se la campana era all’aperto e diluviava, quel suono diceva quando si apriva il portone, quando era aperto e quando stava per chiudersi. E lo diceva con tonalità diverse, con diverse modulazioni, e tutti i ragazzi comprendevano se aumentare il passo o se ancora avevano qualche minuto. Erano Natalino e Natalone dei virtuosi della campanella, come se fra le mani avessero un arpa o la bacchetta di un violino. Natalino e Natalone suonavano per tutti noi, per i maestri, per gli allievi, per tutta la città.

Poi ti toccava aiutare il segretario. Tu eri un esperto dattilografo, velocissimo con i tasti, anche se usavi solo due dita. Del resto avevi lavorato come impiegato comunale prima della guerra e del tuo ferimento in Albania. Poi, quando succedeva, aiutavi il medico nelle vaccinazioni, di te i bambini si fidavano. Quando gli adulti di oggi si vedono ancora i segni del vaccino contro il vaiolo sul braccio, si ricorderanno certamente di te che facevi loro coraggio. I vaccini allora si facevano direttamente scuola.

Poi tutti i ragazzi di allora, adulti e vecchi di oggi, si ricordano che eri tu a toglier loro i denti da latte che tentennavano. Ormai era notorio, che tu non facevi sentire male.
– Vieni fammi sentire – dicevi loro – sento solo quanto tentenna –
Ed il dentino era tolto, senza alcun dolore. Poi una veloce “incartata” nel fazzoletto rigorosamente di stoffa e, riposto in cartella, era pronto per esser mostrato come un trofeo ai genitori.
Al tuo funerale c’erano decine di ragazzi vestiti da calcio con le maglie bianco-rosse della terranuovese e le scarpe con i tacchetti. Già, perché anche nello sport hai lasciato tracce profonde. Avevi cominciato da giovane con il pugilato, poi il ciclismo, la tua prima grande passione. Tu eri grande amico e tifoso di Bartali, vi assomigliavate anche, specialmente nel naso. Ma allora io ancora non c’ero. C’ero invece con il Calcio. Tu sei stato uno dei fondatori della società Terranuovese. Ancora il campo sportivo non esisteva. Io bambino, abituto a giocare nell’asfalto, abituato alla paura di veder spuntare le guardie, il Renzini e il Cacchiani, che ci avrebbero sequestrato il pallone, in effetti avevo sentito parlare di quel campo sportivo che avrebbero costruito verso il fiume. Ci credevo poco in realtà, mi sembrava impossibile che anche noi avremmo avuto uno stadio come quello di Montevarchi e San Giovanni. Per ora mi limitavo giocare con palette e secchiello, nella rena di quella grande strada che stavano costruendo, la chiamavano Circonvallazione.
No, non era un sogno, e tu, babbo, insieme ad altri, hai fondato la Società. A molti altri. Ad esempio quel barista robusto che si chiamava come l’eroe dei mille e che era stato una colonna dell’Aquila Montevarchi. Conoscevo molto bene i’ Matteini e sua moglie Norma, andavo sempre lì per le paste alla crema, era lì che vedevo le partite della Nazionale, ancora i televisori erano solo nei locali pubblici, non esistevano nelle case, lì andavo a vedere e più tardi a giocare a biliardo. Nella cantina, dove il fumo si tagliava a fette, guardavo i giocatori di ramino e conchino e tu babbo eri uno specialista, uno dei migliori.
Conoscevo bene il figlio di Garibaldi. Si chiamava come me e con me aveva fatto Ragioneria e l’Università. Quante spaghettate di notte per preparare gli esami! Con me aveva giocato a calcio, lui molto più bravo. Aveva il cuore atletico, con pochissimi battiti, e non sentiva la fatica in campo. Tu sai, babbo, che Mario, ci ha lasciati molto prematuramente. Lo sai perché è lassù con te, e sai anche che ora quello stadio è intitolato a lui, sai che il campo sportivo di un tempo è ora Stadio Mario Matteini, uno dei tuoi ragazzi.
Già, i tuoi ragazzi! Tu non sei stato solo il segretario della società per decine di anni, tu hai fatto il manovale ai muratori che costruivano gli spogliatoi con i “masselli”, facevi con il gesso le righe in campo, prima della partita, aiutavi “Giannella” custode del campo. Ma eri anche accompagnatore, anche allenatore degli allievi, qualche anno pure degli Juniores. Con te siamo stati campioni provinciali e regionali. Ti ricordi quando portavi i ragazzi a giocare con la tua 500 grigio topo, la 46046? La caricavi come se fosse un pulmino, ancora la società non ne disponeva, e se la trasferta era vicina facevi anche due viaggi. Mai una multa nonostante la 500 fosse sempre sovraccarica, il tuo sorriso disarmante convinceva sempre vigili e polizia stradale.
Mi viene in mente un Natale particolare e un tuo particolare regalo (anche) per mamma. Mamma non era da tempo più operaia alla “Familiare”, l’avevi convinta a stare a casa, ad occuparsi di noi. Non avevamo né televisore, andavamo all’Acli per vederlo, né frigorifero, nonno d’estate comprava le stanghe di ghiaccio, e tu regalasti a mamma la lavatrice.
Dio! la lavatrice! Mamma era commossa piangeva quasi. I panni si lavavano allora direttamente nell’acquaio di granito della cucina, le lenzuola nella conca dell’aia o d’estate direttamente nella stroscia del Ciuffenna. Quasi piangeva la mamma anche se tutti, lei compresa, avevamo cominciato a sospettare qualcosa. E ne avemmo la conferma dopo due o tre giorni. Arrivasti carico delle maglie della squadra. Mamma lo aveva immaginato , ma andava bene lo stesso per lei, avrebbe potuto lavare le nostre camicie e le nostre mutande senza dover uscire nell’aia. Preferiva quando la muta aveva maglia bianca e pantaloncini rossi o viceversa, piuttosto che quella biancorossa divisa a metà. La prima volta si erano un po’ stinte ma a poco a poco era divenuta una lavandaia provetta. Ora le magline erano sofficissime con l’ammorbidente di mamma. Meno contenti eravamo io e Massimo, spesso toccava a noi tenderle davanti gli spogliatoi.
Ma le tue tracce, babbo, non sono solo fatte di ricordi, ma anche fisicamente visibili, ora, nel tuo paese, come i tuoi alberi. Già gli alberi. Tu hai sempre amato, i fiori, le piante, gli alberi come quando in fila indiana, con i nostri baveri bianchi, i fiocchi blu ed i grembiuli neri ci portavi alla loro Festa. Ho sentito che “la Festa degli Alberi” è stata reintrodotta per fortuna.
Li facevi piantare ai ragazzi e li piantavi tu stesso. Come quelle palme, allora, molti anni fa, di qualche decina di centimetri ed ora di qualche decina di metri. Come quella davanti alle scuole, l’unica rimasta e che si intravede in questa bellissima immagine di Mauro.

foto di Mauro Amerighi

(fuori testo)

Vele sbattute dal vento
quelle foglie distese sul cotto
poco lontane da quel porto sicuro.
Quell’edificio ci ha preparato un tempo
ad affrontare i flutti improvvisi
ad evitare gli scogli della vita futura
e noi piccole vele stavamo per salpare
nel nostro mare con la barra
che quel porto sicuro,
quell’edificio bianco-grigio e robusto
ci ha messo fra le mani
e ci ha indicato la dritta.
Regge bene il vento l’albero-palma
che un tempo, il mio sangue antico,
attento guardiano e custode del porto,
ha interrato con le sue mani nei pressi.

O quelle del piazzale davanti alla nostra casa. Sì, la casa popolare che tu ottenesti fra i primi in graduatoria. Noi allora vivevamo in un casa colonica, in cinque in una camera, Letizia non era ancora nata. E quella casa aveva due camere, un salotto, ed un bagno con l’acqua ed il riscaldamento. Il piazzale antistante era coperto di ciottoli e tu dovesti fare due grandi buche per quelle palme che ci sono ancora.

Ma non vi piantasti solo le palme. Gli alberi di Natale a quel tempo non erano di plastica, ma abeti veri e vitali con il pane e le radici. Non potevi buttarli dopo che avevano assolto il loro compito con le palline e le lucine, tu li piantavi nella resede di ciottoli. Due ci sono ancora e sembrano sequoie. Gli odierni condomini li hanno scapati per il vento, ma sono imponenti lo stesso. Difficile immaginare che quei fusti enormi sono stati piccoli alberi di Natale per me e mio fratello.

Si tu amavi gli alberi, specialmente quelli particolari, quelli che gli altri non avevano. Nella nostra casa di qualche anno dopo da quella popolare, una grande casa, con giardino tutto tuo, piantasti una araucaria, ma tutti i giardini ne piantavano una e tu la togliesti per far posto ad una cortaderia. Quanto era bella! con i suoi pennacchi candidi. E noi pensavamo alla pampa ed ai gauchos con il lazo.
La tua preferita era però la sofora pendula.
(fuori testo)

Tutte le volte che ritorno nel mio paese natale e dove ho abitato per gran parte della mia vita faccio una capatina in un giardino. E’ il giardino della casa dei miei “vecchi” dove ho abitato da ragazzo, da giovane uomo prima di farmi una famiglia e dove tornavo sempre con mio figlio, dove tornavo sempre ogni qual volta mi era possibile.
Lì’ c’era la camera, di mio fratello ed io, due lettini gemelli. Lì, sono tornato dopo la separazione e lì mio figlio veniva a trovarmi. Lì sono morti entrambi i miei genitori. Ma quella casa ha un giardino ed il giardino ha una pianta particolare: Non era conosciuta nel nostro paese, nessuno l’aveva. Mio babbo la volle per questo. E’ una pianta non tanto comune, ma di una bellezza unica. Si, mio babbo volle quella pianta, volle la Sofora Pendula, e la curava direttamente, la potava con cura e quasi la accarezzava quando la concimava. E quando torno nel mio paese, vado sempre a vedere la sofora, come sta, mi sembra quasi di andare a trovare i miei, di più, forse che andare al cimitero. E Mi soffermo un attimo e parlo con la Sofora, come se parlassi con mio babbo.
Ora è senza foglie, ma la fotograferò ancora fra un mesetto nel rigoglio del suo fogliame verde intenso.

e questo un commento di un’amica di mio figlio, che abitava davanti

Questo albero lo vedo tutti i giorni , quando apro le finestre sul retro di casa, e quando finalmente mette le foglie che ricadono all”ingiù, torno bambina.
E mi ricordo dell’asilo con Filippo, e immaginavo che sotto quella pianta ci vivessero fate e folletti….quello per me, era il vero, magico, albero di Natale.

Ma ti piacevano anche gli alberi comuni come l’ippocastano. Quest’albero mi riporta ad un giorno triste.
(fuori testo)

Un tempo erano così, prima ancora castagne che tenevo in tasca. Ora uno è questo, il secondo è in altra parte del campo

Conoscete queste piante?
Sono ippocastani, in toscano o almeno valdarnese “marrondindi”. Per me non sono solo due piante, ma molto di più.
L’ippocastano, alla lettera castagno per i cavalli, o marrondindo, marrone d’India è un albero che arriva oltre i dieci metri di altezza, con un tronco gigantesco e bitorzoluto e vive decine e decine di anni nel suo ambiente naturale, per esempio nei viali insieme ai tigli ed ai platani.
E come mai tieni due ippocastani in un vaso da fiori? mi chiederete.

Ero nel cortile della camera ardente dell’ospedale di San Giovanni. La stanzetta era stracolma di gente, molti giovanissimi e vestiti in montura da calcio. Nella cassa c’era mio babbo. Mio babbo era stato uno dei fondatori della società di calcio del mio paese. Era grigio ormai, ma con una specie di sorriso abbozzato nelle labbra violacee, e il suo naso sembrava ancora più grande della grandezza ragguardevole di quando era in vita. Non vedevo nessuno, gli occhi indirizzati a terra. Mi sentivo perso, distrutto, mio padre mi mancava terribilmente. Non riuscivo ad immaginare la mia vita futura senza di lui. Non riuscivo neppure a respirare bene, una voragine mi si era aperta dentro e le lacrime le avevo finite tutte il giorno prima.
Nel cortile c’erano due enormi ippocastani e un mare di castagne erano a terra. Senza neppure avvedermene ogni tanto mi chinavo e ne raccoglievo una infilandola nella tasca dei pantaloni. Con le mani in tasca le lisciavo, le accarezzavo, le mescolavo. Sentivo la buccia liscia e lucida dei marroni sui polpastrelli stranamente irrequieti. Quelle castagne, non so come, mi sembravano l’ultimo regalo di mio babbo.
Quando la sera arrivai a casa, mi accorsi di avere le tasche gonfie di una decina di marroni.
Li misi sopra la tavola, e andai in camera di mia madre. Non era potuta venire al funerale, non si muoveva neppure più, sbranata dalle chele di un mostro invincibile e subdolo. Sembrava che babbo e mamma avessero fatto una specie di gara a chi arrivava prima Lassù, e correvano forte entrambi, ancora neppure vecchi.
Misi i marrondindi in un sacchetto, non ricordo se di plastica o di carta e li poggiai in uno scaffale in cantina, due però li lasciai nella tasca dei pantaloni. E ogni volta che mi cambiavo li spostavo, insieme al borsello, nei pantaloni puliti. Quando camminavo, quando lavoravo, mettevo la mano in tasca e sentivo forte la presenza di mio padre nel contatto con i marroni. Li avevo in tasca anche al funerale della mamma, li stringevo mentre sistemavano la tomba con il cippo di pietra serena che avevo fatto per lei. Vi avevo scolpito un grande sole e le parole: “per noi risplenderai sempre”. Ora erano di nuovo insieme ed i marroni sembrava mi mettessero in comunicazione con tutti e due. Non so per quanti mesi li tenni in tasca, fino a che non si sbriciolarono. Andai incantina, anche gli altri sembravano andati a male tranne due che avevano fatto un “billo”. L’umidità della cantina li aveva aiutati a sopravvivere.
Li misi in un due vasi ricolmi di terriccio e torba.
Come puoi tenere degli ippocastani in vaso? mi dicevano parenti ed amici. Tutti gli anni, in inverno, facevo una potatura energica, tagliavo anche molta parte delle radici, un po’ la tecnica per la coltivazione dei bonzai. L’inverno scorso ho tagliato raso terra, ma questa primavera hanno ributtato orgogliosi e prepotenti. Non ce la fanno più a stare in vaso! Mi devo decidere.
Credo che questa sarà l’ultima primavera che gli ippocastani stanno a casa. Devo metterli in un campo, in un giardino che non ho, ma troverò il sito adatto. Mi hanno seguito sempre anche nei due traslochi che nel frattempo ho dovuto sostenere, ma ora hanno diritto di crescere e di diventare dei grandi alberi, non degli arbusti costretti a forza in un piccolo vaso. Mi dispiace, ma lo spirito di mio padre ha diritto di risiedere in un grande fusto e non in un piccolo arbusto.

Eh già babbo, quel giorno tu vedevi tutto, i ragazzini vestiti da calcio, quella moltitudine di amici che era venuta a salutarti, i tuoi figli, i tuoi nipoti , ma era un giorno triste. Mio figlio pareva distrutto, era il tuo primo nipote maschio e l’unico con il tuo cognome. E quando stavano per saldare lo stagno che ti sfiorava il naso, tutti e due, l’unico all’insaputa dell’altro, infilammo il nostro saluto nella bara.
(fuori testo)

questo il mio:

Dolciastro di morte
un profumo leggero
aleggia nella stanza
e di urina odore
e varichina ed alcol
assorbono le pareti e i mobili.
Dormi babbo nel mio letto
di ragazzo e di adulto solo,
io accanto, in quello
di mio fratello e di mio figlio.
Di dormire ho paura
e degli eventi, mi aiutano
sordi i tuoi rantoli nella veglia.
Di là, contro un mostro
la mamma combatte
discreta e silenziosa.
Dall’attaccapanni barocco,
lentamente, di antibiotico e diuretico
perline lucenti, gocce dalla flebo
ti scendono in vena.
Di luce sulla parete
gli occhi della mia donna
osservano i tuoi
di dolore velati e di anni.
Ho paura, ma posso provare
a dormire. Chi più di te,
se l’ora è giunta, ha il diritto
di morirmi accanto?

questo quello di Filippo

Non so immaginare
la folla
che bagnerà il marciapiede
I combattenti i figli gli amici
a salutare su una collina
il padre di mio padre
che se ne partì come un Socrate
Sereno, preso per sbaglio
dalla grigia puttana
che troppe volte aveva deriso
Batteranno la marcia
gli ex bersaglieri
assaliti dal panico
si chiuderanno in garage
i gatti impazziti
che solo lui sapeva domare
suoneranno le trombe della riscossa
gli idioti
senza lui a castigarli
ché solo la retina mortuaria
seppe chiudere
la boccaccia sdentata, sarcastica
prodiga di baci sulle fronti dei nipoti
e racconti di guerra
che nessun Hemingway sapeva narrare
Invaderà la Noia pranzi domenicali
senza più comizi, maledizioni
senza più istrioni a sovrastare
insipide chiacchiere

 

…. – E bastaa!!-
Questo me lo dici tu lo so, ti conosco babbo!
– mi dovevi fare gli auguri di compleanno! E meno male che quassù non c’è bisogno di leggere, si vede tutto e subito. –
– Eh no babbo, il 100° non è un compleanno qualunque e poi era un pezzo che non ci parlavano –
– Come no, io ti parlo tutti i giorni, forse sei tu che non senti –
– Hai ragione babbo, ma oggi ti volevo ricordare in grande come merita il centenario, e poi tra um po’ è anche il tuo onomastico. –
Tu sai che per noi il Natale non è mai stato solo il compleanno di Gesù Bambino, ma anche il tuo onomastico e tu eri il Papà, opss! il Babbo Natale vero, non quello con la pancia, vestito di rosso, con la barba bianca, ma quello vero veramente. E per noi non lo eri solo il 25 dicembre, ma sempre, tutto l’anno.
E allora Buon compleanno Babbo, fai un pizzicotto a Carla, la tua figlia più grande che da un mesetto è con te e fai una carezza alla mamma da parte nostra, figli, nipoti ed amici.
Buon compleanno Babbo.